di Claudia Castellucci
Ballo della Compagnia Mòra, coreografia di Claudia Castellucci
musica di Stefano Bartolini
danzatori Sissj Bassani, Silvia Ciancimino, René Ramos, Francesca Siracusa, Pier Paolo Zimmermann
tecnica Francesca Di Serio, direzione alla produzione Benedetta Briglia
organizzazione: Valeria Farima
amministrazione: Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci, produzione Societas, Cesena.
Sala Agorà dei teatri di Santagostino di Genova, nell'ambito del Festival “Resistere e creare” del Teatro della Tosse, 16 novembre 2024
Per meglio percepire il senso della danza di Claudia Castellucci bisogna innanzitutto partire dall'idea che lo spazio che ci circonda e in cui 'nasciamo', non è un 'vuoto', di cui è noto abbiamo 'orrore', ma bensì un pieno che la danza incide ed intaglia come un artigiano per ricavare l'ambiente che sarà in grado di accogliere la parola, il logos cui la danza stessa non è estranea pur precedendoli, costruendo per così dire le 'condizioni' estetiche e 'umane' per cui l'una (la parola) e l'altro (il logos) possono 'accadere'. Ma Verso la Specie non è in naturale relazione solo con lo spazio (che è in doppio senso 'atmosfera') ma bensì anche con il 'tempo' e qui ci soccorre il nome della Compagnia, Mòra che è la denominazione che Agostino (Santo Filosofo che a lungo e creativamente ha 'pensato' il tempo come fenomeno insieme metafisico e psicologico) dà alla più piccola pausa che divide due 'suoni' (il tempo è anche musica ovviamente). Si può dire infatti che, paradossalmente ma felicemente, la coreusi della Castellucci mette in 'mòra' il tempo, non sospendendolo ma sospendendone la 'fatalità', il destino precostituito, e invece organizzandolo in direzione di una diversa significatività. Per far questo si avvale, come uno scultore che già immagina nella pietra grezza la forma della sua creazione, di due diversi punti di attacco, da una parte come detto il senso e l'umanità irriducibile della Umanità stessa, dall'altra la sua naturalità che sta dentro il ritmo deambulante degli animali suoi cugini e che si fa, prima di tutto e di tutti, danza. Al riguardo è dall'essenziale studio estetico di Susan K. Langer sulla danza, che rintracciamo questa interessante citazione da Curt Sachs (World History of dance): “Le origini della danza umana non ci si rivelano né nell'etimologia, né nella preistoria. Dobbiamo piuttosto ricostruirle a partire dalla danza delle scimmie: l'allegra, vivace danza circolare intorno ad un oggetto alto e immobile deve essere derivata all'uomo dai suoi antenati animali”. Una vicinanza quest'ultima che porta la Castellucci a guardare, con inflessione fin antropologica, alla spontaneità (apparente) della Danza Popolare, piuttosto che alla tecnica della danza classica o contemporanea che sia (e la differenza è impalpabile). Il primo passo di questo complesso processo è la definizione di una 'cornice', quella che la Castellucci chiama un ornamento, nel senso più ampio del termine, da ricavare a contorno nel pieno dello spazio che si vuole invadere. Ma ciò non basta, poiché come ha molto profondamente intuito Walter Benjamin nei suoi studi sull'allegoria (una forma di ornamento in fondo) e sul dramma barocco in particolare, questo ornamento definisce un vuoto in cui innanzitutto precipita l'angoscia dell'esistere e che dunque deve essere (e ritorniamo al citato horror vacui) necessariamente riempito dal sentimento dell'esistere stesso. Scrive infatti Benjamin nel suo Il dramma barocco tedesco: “E appunto questa è l'essenza dello sprofondamento malinconico: che i suoi oggetti ultimi, nei quali esso credeva di toccare il fondo, si capovolgono in allegorie, che il nulla in cui questi oggetti si rappresentano viene colmato e poi negato.” La danza in fondo è questo, il prendere coscienza, il sentire consapevole che a partire dal proprio corpo dà identità e 'consistenza' anche fisica all'essere umano nelle mille, metamorfiche e metaforiche forme che questo assume nella Storia, diventando così 'spirito' in un universo che da 'inconoscibile' si fa metafisicamente 'conosciuto'. Ed è proprio la danza popolare, rivisitata e trasfigurata coreograficamente da Claudia Castellucci, la porta di ingresso privilegiata in quanto capace di unire la spontaneità della espressione di una irriducibilità che è propria dell'umano con la sua illuminante organizzazione prima spaziale e poi, conseguentemente, temporale. La danza popolare cioè che unisce la prossimità, quasi una sovrapposizione, con la danza della natura animale, con gli slanci di una natura umana, così simile ma anche così diversa, che si vuole concepire quale consapevole centro di un cerchio destinato però ad unire e mai a dividere quelle due nature. L'emergere dell'oscuro, che segna i neri costumi dei danzatori, un po' tra il religioso, lo ieratico ed il magico, attraverso il rito chiude il cammino di questo essere dionisicamente danzanti, assimilando la tradizione non ancora perduta con la ricerca del nuovo, in un tempo che si muove ma non deve diventare diverso da sé, pena il perdersi nella Storia. È una rappresentazione, shopenhaurianamente inscindibile dalla (sua) volontà, 'strana' ma mai 'estranea', in cui il ritmo è il rito stesso e viceversa, quella che in Verso la Specie, un titolo che è anche una direzione programmatica, i cinque bravissimi danzatori conducono in una trance priva di ossessione, in cui non è necessario uscire da se stessi per avere consapevolezza di sé. La tecnica in loro è spinta fino alla piena naturalezza, alla spontaneità espressiva che la coreografia della Castellucci, come detto, predispone e alla fine 'impone' dentro a quel cerchio che man mano va a comprendere gli stessi spettatori, facendoli 'martiri/testimoni' di un evento che si trasforma in 'avvento'. Il loro percorso, in cui l'individualità e il frutto della 'comunità, è come guidato da un gonfalone mobile che molto ricorda le colorate bandiere un tempo usate dai vascelli in navigazione per comunicare l'uno con l'altro. Il tutto nella 'vicinanza' che la sala Agorà del teatro della Tosse di Genova, annullando in fondo l'iniziale concezione 'all'aperto', enfatizza, priva come è di qualsiasi dislivello tra danzatori e spettatori, una sala in cui i suoni e la bella musica di Stefano Bartolini costruiscono quasi una diversa parete, osmotica e accogliente, che va a sostituire quella dei muri di cemento. Una sala che era piena fin dove consentito dalla sua architettura e che ha ringraziato con lunghi applausi. Maria Dolores Pesce