Marco Dalla Gassa KUROSAWA AKIRA. RASHOMON Lindau, Torino, Euro 19.00, pp. 245
Per Rashomon di Kurosawa Akira, Leone d'oro a Venezia 1951, rievocazione in costume IX-XII secolo, enigmatico "giallo" (chi in un bosco ha ucciso un samurai e ha fatto scomparire il pugnale del delitto?), con uno sviluppo "pirandelliano" alla ricerca della verità attraverso imperscrutabili rovelli di situazioni di coscienza, Marco Dalla Gassa, prendendo distanza da ricostruzioni ermeneutiche imprecise o parziali, sempre con una mitizzante aura autoriale, approfondisce "una storicizzazione più matura del film". Per questo, con straordinaria minuzia analitica concentra la seconda parte del saggio sulla meandrica scepsi di un immaginario di duttile ricchezza e ambiguità, "soggettività blande, dentro le quali si possono rispecchiare diversi soggetti" e di contro, anche "presunte oggettività" con "esche tali da escludere una sola giusta e obiettiva decodifica". Ma, in premessa, ne chiarisce i presupposti. Anzitutto, su Kurosawa, in quel tempo regista d'eclettico mestiere, apprezzato per il piglio "rapido, economico e redditizio". Poi, sul testo letterario, nell'intreccio e nei caratteri amalgama di due racconti di Akutagawa Ryunosuke che a sua volta, pur con qualche nuovo innesto, aveva adattato due aneddoti di un'antologia buddista del XII secolo. A rimbecco di chi lo incensa "film d'autore", fa di Rashomon "raffinata operazione di rilettura del jjdageki", genere nipponico ambientato in epoca lontana e società dei samurai, sia pur con "sottotesti politici" relativi al dopoguerra, con una strategia non tanto antiamericana ma che da posizione periferica "guarda all'arte di governare la Polis", e con nuove suggestioni visive e narrative e demitizzazione di climax, che finiscono per proporsi come spunti di futuribili riletture per "radicarsi in una cultura".
Alberto Pesce
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