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1984 - regia Robert Lepage

1984 1984 Regia Robert Lepage

musica: Lorin Maazel
libretto di J.D.McClatchy e Thomas Meehan tratto da "1984" di George Orwell
regia: Robert Lepage, scene: Carl Fillion, costumi: Yasmina Giguère
luci: Michel Beaulieu
coreografia: Sylvain Emard
direttore: Lorin Maazel
con Julian Tovey, Nancy Gustafson, Richard Margison
Milano, Teatro alla Scala, dal 2 al 17 maggio 2008

La Stampa, 4 maggio 2008
Corriere della Sera, 3 maggio 2008
Le citazioni di Maazel per il Grande Fratello

Lorin Maazel compositore: il notissimo direttore d'orchestra, l'ex bambino prodigio che salì sul podio dell'orchestra di Toscanini all'età di 11 anni, ha presentato alla Scala il suo 1984, l'opera su libretto di J. D. McClatchy e Thomas Meehan, tratta dall'omonimo romanzo di Orwell e al debutto a Londra nel 2005. La partitura è ambiziosa. In quasi tre ore di musica, mette in scena un tema sociale, politico e psicologico centrale nel nostro tempo: «l'analisi di coloro che, vivendo in una dittatura, ne assimilano i contenuti sostanziali e si immedesimano in essi, perdendo la propria individualità». Così spiega Maazel, illustrando i tre personaggi principali: l'impiegato Winston che deve manipolare l'informazione per renderla omogenea ai voleri del Grande Fratello; Julia che cerca di dissimulare la sua indipendenza; O' Brien, poliziotto onnipossente che perseguita i dissidenti.

La musica rivela grande mestiere. Da grande conoscitore dell'orchestra quale è, Maazel scrive una partitura scintillante, piena di colori e di effetti raffinati che non possiede, però, un tasso d'informazione superiore a quello di un'elegante colonna sonora. Il libretto è fatto quasi tutto di sentenze, ragionamenti, racconti, considerazioni liriche: poca azione, molta riflessione. Difficile, quindi, trasformarlo in vero teatro: in questi casi, la musica o riesce a trasfigurare il testo con un'enorme potenza espressiva, o si limita ad arredarlo e decorarlo dall'esterno.

È quello che fa Maazel, mettendo insieme un centone delle esperienze musicali del Novecento: il ritmo sussultorio di Prokof'ev spalmato di melodia pucciniana, gli ammiccamenti ironici di Stravinskij accostati ai boati dell'espressionismo e alla densità ritmica di Bartók; qua e là, qualche spruzzo di effetti elettronici, oppure rarefazioni e fosforescenze che dall'impressionismo arrivano fino a Ligeti, e così via. Un patchwork tecnicamente raffinato, ma espressivamente evasivo. I momenti migliori sono quelli estremi: da un lato, lo scatenarsi della violenza, che acquista, attraverso le tempeste di ottoni e percussioni, una reale capacità di scuotere l'ascoltatore, eternamente sottoposto alla monotonia di un declamato appena ravvivato dall'orchestra; dall'altro, i momenti rarefatti di sospensione lirica come il finale, indubbiamente suggestivo. Per il resto, un teatro musicale sostanzialmente incapace di reggere una così lunga durata.

Maazel ha guidato l'Orchestra della Scala con la consueta, tagliente incisività, ma il palcoscenico traballava: Julian Tovey (Winston) e Richard Margison (O' Brien) erano in evidente difficoltà vocale; solo Nancy Gustafson ha cantato in modo egregio nella parte di Julia. Accolto freddamente dopo i primi due atti, alla fine lo spettacolo è stato sinceramente applaudito e Maazel è venuto al proscenio ringraziando per le ovazioni: merito non trascurabile del regista Robert Lepage che, insieme alle scene di Carl Fillion e ai costumi di Yasmina Giguère, ha allestito uno spettacolo in puro stile inglese, cioè moderno ma naturale, senza complicazioni intellettualistiche. Molto funzionale la scena unica: una rotonda di incastellature metalliche che ruota e suggerisce vari ambienti, anche su due piani, oppure si spacca in due o tre costruzioni scenografiche diverse: abbiamo così interni ed esterni, un'azione chiara, luci efficaci, tutto quanto può servire a chiarire l'azione e aiutare la musica di Maazel nel suo faticoso tentativo di trasformarsi in teatro.

Paolo Gallarati

L' incubo di Maazel scuote la Scala

Un successo crescente di atto in atto ha accolto ieri sera alla Scala la «prima» di 1984, opera di Lorin Maazel ispirata al celeberrimo romanzo di George Orwell. Il lavoro debuttò esattamente tre anni fa al Covent Garden di Londra nella stessa edizione che, mutamenti di cast a parte, è ora in scena a Milano. L' ideazione risale però alla fine degli anni Novanta, quando il committente originario e l' autore concordarono di dar vita a un' opera che costituisse una epigrafe del secolo che volgeva al termine. Di qui anche la scelta, a forte connotazione simbolica, del soggetto: scelta sempre difesa nonostante le ben note difficoltà di trasformare un romanzo in libretto. Tale aspetto è comunque brillantemente risolto dagli autori J.D. McClatchy e Thomas Meehan, l' uno più scrittore l' altro più drammaturgo, i quali sintetizzano al massimo i motivi del romanzo (c' è tutto il necessario, dal Bipensiero alla Neolingua) e conferiscono al tema dell' amore proibito tra il protagonista Winston Smith e l' impiegata Julia un peso specifico assai maggiore che non fosse nell' economia del romanzo di Orwell. Ma che dire della musica? Lenny Bernstein parlava di sé come di compositore che faceva anche il direttore d' orchestra: affermazione, nel suo caso, discutibile. Nessuna discussione invece sul fatto che Maazel è direttore anche, saltuariamente, compositore, come del resto, armato di lodevole onestà intellettuale, lui stesso riconosce. Ciò non significa che sia sprovveduto, ché anzi la conoscenza dell' orchestra che gli viene dalla sua attività primaria, l' opera la rivela in ogni battuta. Si traduce ciò, piuttosto, in una beata estraneità alla dialettica estetica in atto tra chi fa musica oggi. Il che naturalmente non è un male. Non è però una spiccata personalità compositiva quella che sta dietro a queste note: un po' Berg, un po' Sciostakovic, un po' Debussy, Ligeti, Bernstein. La silloge, s' intende, è ben miscelata, la scrittura vocale e corale è ben condotta, né mancano buone melodie (l' inno di Oceania, il duetto d' amore dell' atto II). E un difetto pare evidente, che cioè i rari momenti «positivi» dell' azione sembrano più ispirati di quelli in cui andrebbe evocata la cupezza dell' universo orwelliano. A ciò provvede però la bellissima, straordinaria messinscena di Robert Lepage che scuote la platea con proiezioni video e paurose macchine sceniche; agghiacciante in particolare la sala delle torture. Bene l' orchestra, il coro, il coro di bambini. E bene il cast. Winston è Julian Tovey; Julia è Nancy Gustafson, O' Brien è Richard Margison. Una curiosità, la voce registrata del Grande Fratello è di Jeremy Irons.

Enrico Girardi

Ultima modifica il Venerdì, 11 Ottobre 2013 12:20

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