Di Gaetano Donizetti
Libretto: Jean Francois Bayard, Jules Henry Vernois
Marie : Pretty Yende
Tonio : Ruzil Gatin
Sulpice : Sergio Vitale
Marchesa Berkenfield: Sonia Ganassi
Hortensius: Eugenio Di Lieto
Duchessa Krakentoro: Marisa Laurito
Caporale: Salvatore De Crescenzo
Contadino : Ivan Lualdi
Regia : Damiano Michieletto
Direttore: Riccardo Bisatti
Maetro del Coro Fabio Cassi
Scene Paolo Fantin
Costumi: Agostino Cavalca
Luci: Alessandro Carletti
Coreografia: Thomas Wilhelm
Drammaturgia: Mattia Palma
Coproduzione di Teatro San Carlo e Bayerische Staatsoper
Teatro San Carlo di Napoli, dal 18 al 27 maggio 2025
Si direbbe un’operetta avant-lettre, un divertissement alla francese, grazia e charme sospesi su un vuoto di sostanza. Ma forse no. La leggerezza della Fille (e comunque nulla contro la ‘leggerezza’, virtu’ cardinale per Calvino) e’ solo apparente, forse un’astuta concessione al gusto francese dell’epoca ( prima: 1840 all’Opera Comique di Parigi). A guardar bene, la Fille si rivela opera meditata, complessa. Certo, Donizetti non e’ un innovatore. Non esce dai collaudatissimi schemi dell’Opera Buffa. E la drammaturgia della Fille e’ elementare, l’intreccio abbastanza convenzionale, cosi’ come lo scioglimento. Ma l’opera e’ intessuta di modernita’. C’ é il contrasto di natura e societa’. Di liberta’e obblighi legati all’essere donna. Poi il contrasto tra tradizione e modernita’, tra ancien regime (anche musicale: vedi il minuetto del secondo atto) e ventata di liberta’ portata dalle armate di Napoleone. Con l’aggiunta di un pizzico di sciovinismo (‘Salut a la France’, cabaletta del secondo atto) che in Francia non guasta mai, figuriamoci in quel tempo. Una modernita’ e una complessita’ che ovviamente non sfuggono a Michieletto, che le evidenza senza indulgere in schematismi e facili modernizzazioni di facciata, tipo: abiti borghesi, frigoriferi in bella vista e altre consimili banalita’ viste, purtroppo, troppo spesso. Michieletto tratta il tutto con il tocco leggero e la sorridente ironia che era anche di Donizetti. La sua idea centrale e’ stata quella di rendere visivo il trauma del passaggio di Maria dalla liberta’ del bosco alla prigione del palazzo della marchesa sua madre con il taglio di una ampia sezione del fondale di scena che rappresenta il bosco e la sua trasposizione nella sala delle feste del palazzo di sua madre. Da quel pannello irromperanno, poi, i soldati del Reggimento venuti a liberarla. La Natura, la liberta’e l’amore trionfano su perbenismo e convenzioni. La donna riafferma i suoi diritti. La Yende e’ cantante adatta a interpretare quell’anelito di liberta’: presenza inconsueta, ben lontana dall’ idealizzazione angelica dell’eroina con riccioli biondi di cartapesta, voce potente, ben modulata, piu’ violino che flauto, da’ il meglio di se’ nell’ aria “Chacun le sait, chacun le dit”, la piu’ briosa e impegnativa della partitura. Ruzil Gatin (Tonio) e’ tenore ‘di grazia’, leggero, quasi un controtenore, voce e carattere di minore consistenza a petto di Maria, ma tale e’ il personaggio voluto da Donizetti. Canta bene “Ah mes amis, quel jour de fete...”, canto guerriero a modo suo ( annuncia il suo arruolamento al Reggimento), ma la ‘bandiera’ sotto la quale dice, con quel suo fil di voce, di voler marciare e’ quella dell’amore. Il sergente (Sergio Vitale, baritono) ha voce da sergente, appunto: poco melodica, ma netta, compatta, canta magnificamente l’aria del Rataplan in duetto con la Yende. Deludente nella sua prima aria (‘Per una donna del mio casato’ la Marquise (Sonia Ganassi, mezzosoprano) : due acuti e poco piu. Poi, scaldata la voce, le cose sono andate meglio. Infine – novita’ rispetto alla versione bavarese – Marisa Laurito. Veste i panni della duchessa, che vuole maritare Marie a suo figlio, per impossessarsi delle sue ricchezze. Commenta la vicenda con voce fuori campo e divertente accenti napoletani, una felice trovata di Michieletto che sostituisce cosi’ i dialoghi del ‘recitativo secco’ voluto da Donizetti. Ottima l’orchestra nelle ouverture, e deliziosi i fiati leggeri, soprattutto l’ottavino, che ha degnamente (e ironicamente) sottolineato la ‘leggerezza’ dell’opera. Attilio Moro