Libero adattamento dall’opera di Umberto Eco Il nome della rosa edita da La Nave di Teseo
Libretto di Francesco Filidei e Stefano Busellato con la collaborazione di Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti
Musica di Francesco Filidei
Prima assoluta. Commissione Teatro alla Scala e Opéra National de Paris
Nuova Produzione Teatro alla Scala, in coproduzione con Opéra National de Paris e Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Adso da Melk Kate Lindsey
Guglielmo da Baskerville Lucas Meachem
La Ragazza del Villaggio - Statua della Vergine Katrina Galka
Jorge da Burgos Gianluca Buratto
Bernardo Gui Daniela Barcellona
Abbone da Fossanova Fabrizio Beggi
Salvatore Roberto Frontali
Remigio da Varagine Giorgio Berrugi
Malachia Owen Willetts
Severino da Sant’Emmerano Paolo Antognetti
Berengario da Arundel - Adelmo da Otranto Carlo Vistoli
Venanzio - Alborea Leonardo Cortellazzi
Un cuciniere - Girolamo vescovo di Caffa Adrien Mathonat
Ubertino da Casale Cecilia Bernini
Michele da Cesena Flavio D’Ambra
Cardinal Bertrando Ramtin Ghazavi
Jean d’Anneaux Alessandro Senes
Voce di Adso da vecchio Coro
Novizi Coro di Voci Bianche dell'Accademia Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala Maestri del Coro Alberto Malazzi e Giorgio Martano
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala Maestro del Coro Bruno Casoni
Direttore Ingo Metzmacher
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Fabio Barettin
Drammaturgia Mattia Palma | Coreografia Erica Rombaldoni
Milano, Teatro alla Scala, 10 maggio 2025
Non si sa per quale motivo, ma era tanta l’attesa per questa prima assoluta, forse dovuta anche dal successo che ebbe l’omonimo romanzo di Umberto Ecco pubblicato nel 1980, e dal film del 1986 con protagonista Sean Connery (regia di J.Jacques. Annaud). Già perché Il nome della Rosa per le musiche di Francesco Filidei, dal romanzo omonimo di Umberto Eco, nuova realizzazione compositiva lirica e teatrale, ha fatto registrare un tutto esaurito per tutte le 4 repliche del titolo con uno stile compositivo che in qualche modo ci proietta all’ indietro nel tempo, in un periodo intenso dell’attività teatrale e musicale quale fu il secondo dopoguerra permeata di nuove proposte, che recuperavano la tradizione dell’opera lirica e la forma oratoriale tra Pizzetti e Honegger, assieme a opere di Rossellini, Stravinskij e Poulenc che raccoglievano consensi e pubblico. La creazione di Filidei certo che si impone sull’onda della tradizione compositiva armonica in un momento in cui il repertorio contemporaneo fatica ancora a conquistarsi spazio e ascolto, e ha offerto una prova tangibile che la nuova musica, quando è necessaria, trova il suo pubblico. E lo conquista. Opera dalla narrazione complessa che, come, il romanzo, si muove su due piani: da una parte un giallo di ambientazione storica impostato sull’analisi deduttiva e razionale nata dalla meticolosa osservazione dei fatti, dall’altra una precisa ricostruzione filosofica di un periodo della storia medievale travolto da fratture inconciliabili tra eresie pauperiste e interpretazioni contrapposte del dettame evangelico con forti richiami all’eresia dolciniana che si annida nel monastero. Alla fine sarà il fuoco che distruggerà tutto come elemento di purificazione e di dannazione. Il tutto ambientato in una abbazia del nord Italia immaginaria sede di un delicato convegno tra Francescani e delegati della Curia papale insediata ad Avignone. E questo clima tra spazi conclusi, (l’abbazia era costruita come un labirinto) ma di vertiginose altezze della architettura gotica Filidei lo ha restituito, con una musica che alternava momenti di recupero delle antiche sonorità del gregoriano assieme alla solidità polifonica quattrocentesca e all’ariosità vocale della tradizione italiana del Novecento. Nella sequenza di 7 quadri (giornate), in cui è costruita la vicenda con altrettanti omicidi su cui è chiamato ad indagare l’abate ex inquisitore Guglielmo da Baskerville presente come delegato della parte francescana pauperista con il suo allievo Adso da Melk , si aprono i momenti solistici in cui i vari personaggi ben caratterizzati dal punto di vista vocale giocando anche con la fluidità di vocalità. Lucas Meachem, nei panni di Guglielmo da Baskerville, ha incarnato perfettamente la figura del razionalista ironico e tragico: voce piena, fraseggio mobile, intelligenza musicale e scenica in perfetto equilibrio. Al suo fianco, la Kate Lindsey di Adso ha impressionato per duttilità espressiva e verità emotiva, regalando un personaggio complesso, attraversato dal dubbio e dalla tensione erotica e spirituale insieme. Gianluca Buratto è stato un Jorge da Burgos di straordinaria forza scenica, scolpendo il ruolo con una vocalità profonda, quasi cavernosa, capace di incarnare il fanatismo e la fragilità. Daniela Barcellona, nei panni di Bernardo Gui, ha dato vita a un inquisitore gelido e implacabile, con un’interpretazione vocale che evitava il grottesco per puntare a una glaciale lucidità. Roberto Frontali, straordinario nel ruolo di Salvatore, ha offerto una prova intensa, disturbante, mai caricaturale, mentre Carlo Vistoli, in doppia veste come Berengario e Adelmo, ha incantato per il controllo del timbro e l’abilità nel passare da un registro erotico e insinuante a uno più spirituale e lirico. La giovane Katrina Galka, nel doppio ruolo della Ragazza del Villaggio e della Statua della Vergine, ha dato vita a due figure simboliche con grande intensità espressiva, servendosi di un timbro chiaro, sottile e incisivo. Fabrizio Beggi, nei panni dell’abate Abbone da Fossanova, ha costruito un personaggio autorevole ma screziato di ambiguità, mentre Giorgio Berrugi, come Remigio da Varagine, ha saputo coniugare tensione drammatica e vocalità solida. Owen Willetts, nel ruolo del bibliotecario Malachia, ha offerto un’interpretazione misurata e perturbante, ben sorretta da un timbro personale, così come Paolo Antognetti, nei panni dello speziale Severino da Sant’Emmerano, ha ben reso la quieta marginalità del suo personaggio. Leonardo Cortellazzi, infine, ha dato voce con precisione e naturalezza ai doppi ruoli di Venanzio e Alborea, confermando ancora una volta la sua eleganza vocale e la sensibilità attoriale. Ogni voce era perfettamente integrata nel disegno teatrale e musicale. La direzione di Metzmacher alla guida dell’Orchestra del Teatro alla Scala, ha saputo districarsi in questo groviglio che dà forma al labirinto sonoro restituendoci una lettura massiccia della partitura senza mai rinunciare alla raffinatezza timbrica. Notevole il lavoro fatto con il vasto comparto delle percussioni, vero cuore pulsante della scrittura orchestrale: strumenti tradizionali e oggetti extra-musicali si combinavano per evocare risonanze metalliche, silenzi sospesi, e inquietudini al limite del sacro. Tensioni si sono amplificati grazie al contributo del Coro del Teatro alla Scala, preparato da Alberto Malazzi e Giorgio Martano, che ha saputo trasformarsi in presenza collettiva minacciosa, sacrale, interrogante alloggiato in una sorta di balconata coinvolto anche con percussioni fatte dagli spartiti violentemente sbattutti. Un plauso va anche al Coro di Voci Bianche dell’Accademia, guidato da Bruno Casoni, che ha contribuito a creare squarci sonori di pura astrazione, quasi voci fuori dal tempo, o forse fuori dal dogma. Plauso alla regia di Damiano Michieletto che ha rinunciato a qualsiasi tentazione interpretativa per concentrarsi sull’essenziale, ossia costruendo la biblioteca come luogo mentale, lo spazio scenico come eco di un conflitto interiore. Le scenografie di Paolo Fantin, veli, strutture mobili, trasparenze, non erano semplici fondali, ma parte integrante della drammaturgia. Le luci disegnate da Fabio Barettin hanno saputo orchestrare ombra e visibilità come due strumenti contrapposti. Qui la ricostruzione ambientale è stata essenziale restituendo al pubblico una sequenza ricca di immagini e simboli dell’iconografia medievale: i bassorilievi marmorei che prendono vita come anime di pietra, la sequenza dei bestiari medievali che vivono di vita propria, le miniature che illustravano il mondo all’incontrario, la restituzione della complessa scena del sogno di Adso tra apocalisse e tentazioni demoniache e lussuriose. Il tutto alla ricerca della verità, quella dell’inquisitore Bernardo Gui che non transige libere interpretazioni e quella di Guglielmo alla ricerca di una verità nata dall’osservazione elementi della natura scevra da dogmatismo ma dalla certezza della sapienza umana creata da Dio. Sullo fondo la sostanza dell’uomo, con suo essere nel mondo. Ma soprattutto, l’opera mette al centro, come Eco, la questione del riso: non semplice sollievo, ma forza sovversiva. La risata diventa, nel contesto monastico e inquisitoriale, un atto rivoluzionario, un farmaco dell’anima. La distruzione del libro perduto di Aristotele sulla commedia, vera ossessione del monaco cieco, è anche la negazione della possibilità di una verità imperfetta, ambigua, capace di accogliere la fragilità umana. Il pubblico ha risposto con lunghi applausi, non solo per dovere ma per autentica emozione, rendendo giustizia a un progetto in cui ogni parte, musicale, teatrale, filosofica si collegavano l’una con le altre. Non è un’opera facile, non compiace ma fa connettere ad mondi altri che sono la radice del nostro pensiero occidentale. Federica Fanizza