Heiner Goebbels
Surrogate Cities
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
direttore Andrea Molino
Aurore Ugolin, John De Leo e Jack Bruce voci
Alípio Carvalho Neto sassofoni
composizione, scene e light designer Heiner Goebbels
sound director Norbert Ommer
produzione Ravenna Festival
in collaborazione con il Teatro Alighieri
Visto il 07 giugno 2025, Teatro Alighieri, Ravenna
C’è qualcosa di irreversibile che accade quando il suono non descrive, ma diventa luogo. È quanto è successo sabato 7 giugno 2025 al Teatro Alighieri, nell’ambito del Ravenna Festival, con Surrogate Cities di Heiner Goebbels, affidato all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini diretta da Andrea Molino. Questa interpretazione di Surrogate Cities ha creato un paesaggio sonoro che non si è limitato a rappresentare la città, ma la ha costruita dalle fondamenta, mostrandone il cemento, il traffico, le voci, i silenzi. Una città immaginaria ma estremamente reale, percorsa dall’Orchestra attenta, precisa nei paesaggi sospesi, fluida nei passaggi di colore, eppure, nei momenti più pulsanti, là dove il ritmo chiede più incisività, come nei pattern ossessivi che emergono come pulsazioni industriali, si sarebbe voluta una forza d’attacco più netta. È come se, proprio dove il suono doveva diventare fisico, lo slancio rimanesse frenato. Tuttavia nulla che abbia incrinato la coerenza dell’insieme. Goebbels non compone in senso tradizionale: stratifica linguaggi, crea dispositivi. I testi sono parte della partitura tanto quanto gli strumenti. Le luci disegnate dallo stesso compositore erano mutevoli, come a costruire e decomporre lo spazio. La partitura non è rigida, si articola in episodi. La prima sezione dell’opera è tutta affidata alla combinazione di orchestra e sampler: materiali sonori urbani si fondono a sezioni orchestrali, a volte sinfoniche, altre quasi rituali. Il risultato è un organismo che sussulta: passato e futuro che si combattono dentro ogni misura. Non c'è trama, ma un catalogo di percezioni urbane: frammenti di memoria, senso di spaesamento. Il cuore del progetto è affidato a tre voci straordinarie. Tre anime urbane, diversissime e complementari. Nel brano iniziale, John De Leo, voce camaleontica, è il personaggio che non si riesce mai ad afferrare del tutto. Entra in scena come un frammento, come un graffio. Legge, anzi, recita: frasi spezzate, un modo di parlare che è già musica. Non interpreta personaggi, ma stati della città: il cronista allucinato, il passeggero dell’ascensore infinito, il testimone che non sa più cosa ha visto. Ogni parola è un evento. Alterna sillabazioni jazzate a esplosioni gutturali, passando da falsetti striduli a improvvisi pianissimi. Il suo contributo è urbanità che si frantuma, si ricompone, si contamina e con potenza emotiva veicola ironia e disincanto. In una sezione successiva, la voce si apre al canto con Aurore Ugolin, mezzosoprano franco-spagnola, interprete di grande sensibilità, dotata di un timbro che non chiede mai attenzione, ma la attira con una forza magnetica. La sua voce affonda nel tessuto orchestrale, ne riemerge come memoria, come nostalgia. È la voce di una città interiore, quella che non dorme mai. Nei brani più lirici la sua timbrica calda si staglia sul suono con dolcezza. Nei suoi interventi, il canto sembra sempre sul punto di farsi parola. Poi, in fondo al percorso entra Jack Bruce. Bruce non è solo cantante, è danzatore professionista, classe 2003, cresciuto tra Londra, Düsseldorf e Amburgo, già distintosi con coreografie sue, come con ruoli da solista nei maggiori balletti europei. Interprete giovane, intenso, dalla presenza tanto precisa quanto straniante, il suo corpo porta con sé un altro tipo di memoria, fa dialogare gesto e suono. La sua voce diventa la chiusura perfetta di questa città sonora, un ultimo respiro, umano, verticale. Bruce canta da solo, al centro della scena. La sua voce esce come un’eco che non cerca di imporsi. È un finale che non chiude, ma lascia aperto un percorso. Come se la città, alla fine, fosse ancora là, dietro il sipario, nel nostro stesso respiro. Il gesto vocale finale è affiancato alle sue brusche e spezzate cesure fisiche, stilizzate e incisive. Jack Bruce si muove come una creatura urbana, disarticolata e vibrante, oscillando tra scatti spezzati e slittamenti lenti, quasi a disegnare con il corpo i rumori della città immaginata da Goebbels. A completare il paesaggio, il sassofono di Alípio Carvalho Neto, che non si impone come solista, è l’elemento volatile, l’aria. Il suo strumento passa dalla sensualità soffusa del soprano alla rabbia nervosa del tenore, con colori che si incastrano dentro il tessuto orchestrale come colonne in una skyline. Ogni suo intervento sembra segnare un nuovo orizzonte: quando entra, è come se le strade prendessero fiato. Un sax che non cerca melodia. Il suo suono arriva come vento, a tratti caldo, a tratti pungente. Entra nei vuoti, li riempie, li spezza. Il sax è qui strumento topografico: marca i confini, apre varchi, fa da guida nel labirinto di cemento e memoria. Il lavoro del sound director Norbert Ommer ha reso l’intera partitura tridimensionale. I suoni erano distribuiti nello spazio con precisione chirurgica. Le voci sembravano provenire da luoghi fisici distinti, i rumori urbani emergevano come se fossero parte della sala. Tutto è risultato avere una collocazione, un suo posto nella geometria sonora costruita intorno alla platea. Al termine, non c’è un vero epilogo. La città, questa città sonora, liquida, instabile, non si conclude, resta sospesa. Surrogate Cities non è un’opera su qualcosa. È un’opera che fa accadere qualcosa. Giulia Clai