Produzione Teatro dell'Orsa
Progetto MigrArti 2107 – MiBACT / Comune di Reggio Emilia,
realizzato con Roots Evolution
Partner: Cooperativa Dimora d'Abramo, Camera del Lavoro Territoriale di Reggio Emilia, La Corte Ospitale, FederGAT, Europa Teatri
Ideazione: Monica Morini, Bernardino Bonzani, Annamaria Gozzi
con argonauti di qui e d'altrove, giovani di seconda generazione, migranti, rifugiati, italiani
Scenografie: Franco Tanzi, Michele Ferri
musiche originali: Gaetano Nenna, Antonella Talamonti
Spettacolo itinerante per le strade di Reggio Emilia,
visto sabato 16 settembre, 2017
Il teatro è una zattera di senso in mezzo alla tempesta del non senso. Così Monica Morini nell'incontro di domenica 17 settembre presso il centro sociale Hortus a Reggio Emilia, durante il quale i convenuti Gabriele Vacis, Andrea Porcheddu, Monica Morini e Bernardino Bonzani, questi ultimi anima e corpo del Teatro dell'Orsa, moderati da Michele Pascarella, riflettevano sulla categoria e sulle pratiche del teatro sociale d'arte.
Una zattera di senso sulla quale siamo saliti in molte centinaia la sera di sabato 16 settembre per lo spettacolo Argonauti del Teatro dell'Orsa. Zattera-nave-navi: dal simbolismo "resistenziale" di Monica Morini alla nave degli Argonauti, e da lì alle piccole navi sagomate in legno leggero e issate su pertiche, innalzate nella notte dalle braccia confidenti degli spettatori-fiume riversatisi tra le sponde-strade della città, poi incanalato, il fiume di gente, sulla lunga teoria dei viali che ne defletteranno il flusso fino a un parchetto urbano della semiperiferia dove si consumerà il finale...
E sempre in un parco cittadino è cominciata la traversata degli Argonauti, attori-spettatori uniti dalla metafora del viaggio per mare e dalla zattera-senso; in un parco (il Parco del Popolo) che sorge alle spalle del Teatro Valli e quasi di fianco al Teatro Ariosto. Una scena all'aperto, collocata tra due teatri al chiuso; storici, prestigiosi, ma in questo momento muti e chiusi. Navi in porto con equipaggio e passeggeri a dormire questi; nave in procinto di salpare, carica di corpi e voci e gesti, quella.
Lo spettacolo si annuncia sotto un grande cedro del libano, i cui rami si distendono in un abbraccio laterale che dà al portamento della pianta un aspetto simile a quello di un gran candelabro, sotto il quale si accendono le fiammelle bianche dei cinquanta attori che popolano il prato. Bianchi perché vestiti di bianco, ma nient'affatto tali nei volti, che appaiono per una buona metà di inequivocabile matrice africana. Perché questo è il nerbo, l'essenza del progetto: un incontro, plasmato con lo strumento del teatro, tra immigrati di seconda generazione, richiedenti asilo, giovani italiani - maschi e femmine - artisti della scena.
Ed eccone la partenza, con un atto che è ricevimento ravvicinato degli spettatori; un accoglierli con parole e presenza di intima risonanza: con un andare dei performer verso la folla, e avvicinare una a una, con semplicità, le persone, proferendo ciascun attore una domanda forte, impegnativa: chi ti ha insegnato cosa? E in attesa di una risposta, che sulle labbra dello spettatore può emergere dopo qualche esitazione, ecco raccontata, subito dopo, in pochi istanti, la risposta dell'attore stesso alla propria domanda: mio padre mi ha insegnato che prima di giudicare qualcuno devo fare almeno 100 passi dentro alle sue scarpe (ricostruiamo a memoria), a cui seguirà la nostra, di risposta: quella di uno spettatore naufrago nella sorpresa disarmante di un simile approccio.
E' un inizio folgorante e toccante, anche visivamente bello: il punto di vista, l'incorniciatura che le luci, il cedro, e lo spazio ad esso sottostante ha predisposto alla visione, si suddivide, si moltiplica in tanti punti, dal lato opposto della scena, tra la gente; punti che sono altrettanti gorghi d'attenzione: quasi subito infatti viene voglia di spostarsi da un attore all'altro per inseguire il mandato etico ed epico della domanda, così com'è rivolta a ciascuno spettatore in piedi di fronte all'Altro; e viene desiderio di inserirsi nel circuito empatico di quell'"uno-a-uno" perche quello che sta accadendo riguarda anche chi sta temporaneamente fuori, perché anche lui è alla ricerca di un senso in questo incontro e, in definitiva, del senso di questo incontro.
Dopo il silenzioso e dimesso prologo, nient'affatto "teatrale", caschiamo di colpo nella rappresentazione e ascoltiamo gli antefatti dell'avventura narrata nel poema di Apollonio Rodio. E' una fabula piuttosto asciutta e limpida, che poteva forse essere sinteticamente resa a breve prologo, per dar modo di immergersi poi con maggior forza nel viaggio dentro al mare-città, che ci è sembrato, aldilà dell'esposizione degli antefatti, più stringente e più consono all'idea drammaturgica generale.
Ma il viaggio ricomincia subito dopo; ci sembra questo il vero inizio: nel pratone opposto al cedro, verso il quale ci si è poi spostati, si recita un addio alla madre declinato in tutte le lingue e i dialetti che abitano questi giovani uomini e donne, i quali al termine, impugnate le proprie navi-insegne, altre ne distribuiscono agli spettatori cosicché – ed è forse una delle più belle immagini dello spettacolo – a staccarsi e a riguardare un po' discosti la fiumana di gente, si vede in cammino un grande esercito pacifico i cui labari paiono alludere all'eterno viaggio dell'uomo fuori dalla propria terra o dalla propria misera condizione, alla ricerca del vello d'oro o della felicità, dell'autorealizzazione o della pace, dell'amore o di tutto ciò che dovrebbe rendere la vita degna di essere vissuta. Lo spettacolo si muoverà ancora nelle strade, facendo tappa nel cortile della Camera del Lavoro, e poi ancora nel nel piccolo parco sopra menzionato dove l'immagine finale del vello d'oro conquistato, una grande "pelle" di stoffe sospesa sul fondo del palco, si sostanzierà anche del passaggio rituale degli attori sotto di essa e di tutti, o quasi, gli spettatori.
Ma vengono alla mente altre considerazioni, più generali. Almeno due. Primo: lo spettacolo è recitato, ricordiamolo, in buona parte da non-attori, e questo ovviamente mette in campo tutta una serie di ragionamenti sul non-teatro dei non-attori, laddove però non può non imporre il suo sigillo la regia; oppure, rovesciando i termini, sul teatro tout court che non certo a dispetto, anzi proprio a causa, della presenza di non-attori – e della regia – trova il modo per ridefinirsi artisticamente con forza attraverso un'iniziale negazione di sé (si veda a modello di questa tendenza la straordinaria Eresia della felicità delle Albe). Secondo: il teatro è qui anche strumento di un discorso che si fa più ampio e comprende l'idea che ci si possa riappropriare gioiosamente delle città anche senza passare per le forche caudine di "riti" di occupazione dello spazio urbano più modaioli e pervasivi, come quello pandemico dell'aperitivo. Qui si tratta di attraversare, con il pubblico, luoghi molto diversi tra loro in una linea che comprende la città accettata e la città rimossa; la città delle luci e quella dei coni d'ombra. Così disegnando un'altra geografia degli spazi urbani, una geografia temporanea certo, com'è sempre temporanea la comunità che si forma per il teatro, ma in cui sono la forza e l'intensità dell'esperienza a fungere da formidabile legante: per poco nel tempo, ma per molto nello spazio interiore di ciascuno. E qui per modello, a complemento del riferimento precedente al lavoro delle Albe, non si può non ricordare il corteo gioioso di Marco Cavallo che nel 1973, dal manicomio fende la città di Trieste portando con sé i matti, gli artisti, i medici, gli infermieri, gli studenti, tutti non-attori di un non-spettacolo, di una drammaturgia della festa che s'incarica di scardinare la geografia abitudinaria di uno spazio sociale e urbano chiuso su di sé.
Franco Acquaviva