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AMANTI DI TESTORI (LE) - regia Roberto Recchia

Gianna Coletti in "Le amanti di Testori", regia Roberto Recchia Gianna Coletti in "Le amanti di Testori", regia Roberto Recchia

Di e con Gianna Coletti
Al pianoforte Giuseppe di Benedetto
Regia di Roberto Recchia
Fotografia e grafica di Sergio Bertani
Produzione Spericolata Quinta
Milano, Teatro Linguaggicreativi 1-2-3 Marzo 2019

www.Sipario.it, 3 marzo 2019

Aveva ragione Stendhal, Milano la si scopre voltando un angolo, entrando in un portone, dietro un cancello, o, come in questo caso, in un teatro a misura d'uomo che, come distilleria dell'anima, offre agli spettatori una grappa ricavata dalla vinaccia drammaturgica testoriana, un testo scenico che ti scalda dentro, che accende con una vampa lo sguardo. Ed il centro di gravità dell'attenzione, da subito è l'attrice Gianna Coletti, la cui voce sferraglia allegramente come un tram, è densa come l'aria di certe vecchie osterie sul Naviglio o in via Garibaldi dove tirar mattina insieme ai personaggi di Simonetta. La laringe si fa MILLYflua nel canto, e nutrita da una grattata MELATOnina nei momenti di prosa, dai toni di un contralto che attinge la sua verità di donna giù nel ventre, ed ha tutto il tempo di scaldarsi alle latitudini del cuore. Riesce a raccontare le donne testoriane nell'unico modo possibile, immergendo le mani fino ai polsi ed oltre, cominciando a dipingere la tela scenica di fonemi materici, di colore grumoso, di fare della visione e dell'ascolto un'esperienza tattile, olfattiva. Questi personaggi femminili, che hanno la milanesità come una categoria dell'anima, come un a-priori kantiano, al pari dello spazio e del tempo, con cui si filtrano le informazioni del mondo di fuori, abbracciano selvaggiamente lo spettatore con le loro parole, al pari di quelle della Yourcenar hanno gli occhi ben chiusi nel piacere, ma spalancati e implacabilmente coscienti nella sofferenza. La prima, la Maria Brasca, rappresenta una generosa sorsata di femminilità genuina, da far girare la testa, introduce il sacrificio di amore, quel modo tutto cromosomato xx di vivere la passione, un fuoco che incendia anche l'Arialda e La Gilda del Mac Mahon, donne al di là del bene e del male, della morale comune, Antigoni che dialogano con te spalancando con generosità la "e" come se la aprissero in un grande abbraccio, che vogliono il loro Amore Assoluto, che indossano con disinvoltura i loro tacchi, come tragici coturni, che ridono e piangono, dialogando, con la stessa disinvoltura, con la Musa tragica Melpomene, e con quella comica Melpomene. Le eroine di Testori, insomma, sono tutte lì, in un ideale quadro caravaggesco che cerca il sacro nella verità della carne, che si sofferma nell'istante il "verbum carnis factum est". Si ha l'impressione, ascoltando ed osservando l'attrice, di vedere una sessione di pittura di Pollock, quel modo, libero, primordiale, selvaggio, di dipingere, con la stessa naturalità con cui lo farebbe un bambino. Si dona alla platea con una generosità che ormai sempre più raramente si può registrare in uno spettacolo teatrale. Ogni gesto, ogni fonema è un concentrato d'anima, una sostanza cardiaca dall'incredibile peso specifico, basta una goccia per accendere un intero mondo interiore. L'accompagnamento musicale del pianista Giuseppe di Benedetto, che attinge all'universo musicale di Fiorenzo Carpi, Gino Negri e Walter Waldi, costruisce, nota dopo nota, una paesaggio milanese in grado di accogliere queste anime affamate d'amore, di offrirsi come un guardaroba teatrale con cui vestire i loro stati d'animo, e comunicare con festosità la loro umanissima, tragica, allegra joie de vivre. Bastano davvero una scenografia essenziale per raccontare questo terzetto di donne, tre sedie, pochi oggetti scenici, a riempire il palcoscenico ci pensa l'attrice, con i suoi fiati, con l'ipoteca di carne e di spirito che si fa presenza in ogni angolo della scena. E' stato bravo il regista Roberto Recchia, al pari delle levatrici di un tempo, a far partorire con naturalità i personaggi all'interprete, e sembra di sentirne ancora i vagiti, il cordone ombelicale, l'odore dolciastro ed insieme pungente del sangue, e quello acre del sudore. Ha successo nell'impresa di cogliere una verità, naturale come una descrizione di una pagina di Zolà, di queste donne testoriane, insieme sue amanti ed amanti del pubblico, a cui si concedono nello stesso modo con cui raccontano il loro abbandonarsi su un prato della periferia, dove fanno ancora vibrare di gelosia qualche divinità, che le guarda dall'alto di una pupilla appena velata dal grigio dello smog cittadino.

Danilo Caravà

Ultima modifica il Domenica, 03 Marzo 2019 10:19

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