mercoledì, 26 marzo, 2025
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ALBERO SENZA OMBRA (L') – regia César Brie 

"L’albero senza ombra", regia César Brie. Foto Paolo Porto "L’albero senza ombra", regia César Brie. Foto Paolo Porto

Testo, regia e interpretazione: César Brie
Musiche: Pablo Brie e Manuel Estrada
Scene e costumi: Giancarlo Gentilucci
Luci: César Brie, Marco Buldrassi
Assistente alla regia: Gianfranco Berardi
Foto: Paolo Porto 
Campo Teatrale, Milano, 16 febbraio 2025

www.Sipario.it, 25 febbraio 2025

“L’albero senza ombra” non è un’immagine poetica, è qualcosa di più e di meno; è la nota sintetica, di un realismo che lotta con la poesia e la costringe a serrare le fila dell’espressione, posta in esergo alla definizione di un lavoro massacrante: quello di chi in Bolivia è addetto alla raccolta della  “castagna boliviana” (da noi erroneamente detta “noce brasiliana”): l’albero altissimo di quel frutto è privo di foglie e dunque il raccolto avviene sotto la vampa del sole per conto di proprietari di fondi immensi.

Lo spettacolo parte da qui e ci accoglie con l’attore già in scena, assorto in uno spazio delimitato a terra da una cornice di foglie secche, dalle quali Brie estrarrà nel corso del lavoro le foto di tre dei lavoratori uccisi nel massacro dell’11 settembre 2008, in Bolivia, in seguito a un atto di ribellione dei campesinos contro condizioni di vita e di lavoro disumani.

Il virato rosso del fogliame è probabile alluda al sangue, così come analoghi richiami a un clima di violenza si fanno materia tagliata, che scorre, si spande, sprizza, si fa detrito per mezzo di vari dispositivi scenici preparati nel ring dell’azione. Collegati in graticcio da funi che li reggono, due crociere vestite d’abiti maschili e femminili, pelli di personaggi che vivranno brevemente; un sacco con dentro quel che sembra farina di mais, due ciotole; elementi il cui ancoraggio verticale consente di creare vari effetti di pendolo, con quel che di misterioso, simbolico, allusivo, minaccioso questo movimento può far sorgere nella memoria dello spettatore. 

Brie si ritaglia poi una postazione sull’angolo destro del palco per una serie di a-parte che contestualizzano il racconto in una cornice di biografia artistica, dai quali cogliamo l’origine dello spettacolo nel quadro dell’attività del Teatro de los Andes in Bolivia; veniamo a sapere che la sopravvivenza del teatro e dello stesso Brie vengono a un certo punto messe in pericolo, in seguito alla produzione di un documentario sul massacro, da minacce e atti intimidatori posti in essere da ignoti.

La scrittura scenica si muove tra nessi narrativi, sequenze fisiche in aroma di (buon vecchio) training, rapidi ritratti di alcuni personaggi coinvolti nell’eccidio; immaginando una discesa nell’Ade dove non come Odisseo scavando la terra e offrendo il sangue delle bestie Brie rievoca la presenza dei morti, ma scavando nella propria memoria e offrendo in figura il sangue delle vittime – e forse un poco, metaforicamente, del proprio.

L’attore non entra nel personaggio, come si direbbe secondo una vulgata pseudo-stanislavskiana, lavora per accenni, per addizione di minimi accessori eloquenti (una giacca vistosa, degli occhiali da sole, un camicione, un foulard rosso), e sottrazione di caratteristiche vocali peculiari dei personaggi, in un esercizio di straniamento che applica anche alla parallela manovra della macchina scenica di un teatro povero in cui si affastellano un certo tipo di elementi – peraltro ricorrenti nella teatrografia di Brie – e sbordamenti materici: mais, foglie, infine stracci inzuppati d’acqua nella scena forse più potente dello spettacolo.

E’ un lavoro che affila sullo spettatore una propria efficacia civile perché informa, sensibilizza, con i dispositivi simbolici propri e le emozioni conseguenti; ma in qualche modo è anche un atto di ammissione dell’impossibilità o della vanità non della testimonianza, ma dell’impotenza dell’arte come strumento diretto di lotta civile o politica: i tentativi di Brie di denunciare il massacro finiscono per mettere in pericolo la sua vita, quella del gruppo e del medico legale europeo che a un certo punto viene coinvolto a testimoniare, senza sortire alcun effetto sull’opinione pubblica boliviana. Se il teatro può e deve essere politico sorge la domanda (retorica) su come indirizzarlo in quella direzione: con l’attivismo diretto o (soltanto?) con l’attivismo della coscienza?

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Sabato, 01 Marzo 2025 22:21

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