di Samuel Beckett
versione italiana Carlo Fruttero
Regia: Marco Sciaccaluga, Scena: Jean-Marc-Stehlé, Catherine Rankl, Costumi: Catherine Rankl
Musiche: Andrea Nicolini, Luci: Sandro Sussi Teatro Stabile di Genova.
Genova, Teatro della Corte, dal 20 ottobre al 8 novembre 2009
Scrive Samuel Beckett «la fine è nel principio, eppure si va avanti». È proprio in quella congiunzione «eppure» che si situa il senso-non senso dell' esistenza che genialmente crea e rappresenta in Aspettando Godot lucida metafora della vita fatta di attesa, di ragionamenti e gesti che i personaggi compiono per dare a se stessi l' impressione d' esistere, scritta in un linguaggio essenziale, percorsa di incertezze e dubbi che non sono avversari ma strumenti di cammino, raggelata in un tempo senza tempo che è quel granello di sabbia che continua a scorrere e che ti porterà via, collocata in uno spazio che è il vuoto di una natura rinsecchita, esausta come esausti sono i protagonisti che nel loro essere testimoniano il fallimento ontologico di ogni falsa pienezza. Una denuncia dell' assurdità della vita feroce al tempo stesso tranquilla perché semplice constatazione. E questa assurdità ognuno la riempie di chiacchiere, di fede, di filosofie, di piccole certezze, di abitudini, grandi sordine del quotidiano. Il regista Marco Sciaccaluga riesce a fare vibrare la complessità del testo con semplicità e sensibilità in uno spettacolo con la suggestiva scena di Jean-Marc Stehlè e Catherine Rankl, una campagna brulla avvolta in un cielo grigio, sovrastata da un imponente albero, circoscritta nel nero come fosse contenuta in una sorta di palla di vetro, recitato da due ottimi attori, Eros Pagni che disegna con svagata intensità un Vladimiro riflessivo e dalla inquieta malinconia e Ugo Pagliai un Estragone tenero, ostinato, attraversato da lampi di aspra e angosciata violenza. Più discutibile ma non gratuita la scelta di fare della coppia padrone e vittima Pozzo, Gianluca Gobbi, e Lucky, Roberto Serpi, l' emblema di un potere giovane, violento, volgare sopra le righe che ha al laccio un intellettuale che è un troppo fragile iconoclasta.
Magda Poli
All’inizio i due protagonisti si presentano in maniera piuttosto convenzionale, anche se Vladimiro – Eros Pagni accenna qualche movenza da cinema muto, poi lo spettacolo penetra nel profondo significato del testo, e via via prende toni che vanno dal comico al tragico, sfiorando il surreale e offrendo allo spettatore tutta una gamma di sollecitazioni verbali e visive, pur rimanendo in una dimensione apparentemente immobile. Sono i dialoghi a dare il risalto, le parole sono reali e comuni ma arrivano dietro un velo di ironia, e sembrano cadere dall’alto di un mondo “altro”. La regia ha scelto una chiave di lettura che fa notare l’allegria piuttosto che la tristezza insita nell’animo dei due e questo punto di vista non comune dà alla rappresentazione sfumature molteplici. La messa in scena procede in modo articolato, fondata sulla bravura di Eros Pagni e Ugo Pagliai, per la prima volta insieme. Diversi per formazione e stile, i due attori si integrano felicemente nell’impegnativo scambio di battute, regalando al pubblico qualche emozione indimenticabile. Pagni è un Vladimiro pensoso, non troppo esibito, cui l’attore dedica toni di grande intensità in un’interpretazione eccellente, da notare la scena con Pozzo e Lucky in cui compare l’umanità nascosta del personaggio. Pagliai dà ad Estragone un abile tocco di stravaganza e di comicità, facendone con naturalezza un ritratto di barbone ben riconoscibile. A movimentare la scena entrano efficacemente in campo Gianluca Gobbi – Pozzo e Roberto Serpi – Lucky, che insieme ad Alice Arcuri - il ragazzo, offrono una bella prova interpretativa. La scena, con un albero nudo al centro, è piena di suggestione, s’ispira al quadro “L’albero della cuccagna” di Brueghel il Vecchio, quadro che aveva suscitato in Beckett l’idea di Aspettando Godot. Buone le musiche di Andrea Nicolini.
Etta Cascini