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ALBERGO DEL LIBERO SCAMBIO (L') - regia Marco Lorenzi

"L'albergo del libero scambio", regia Marco Lorenzi "L'albergo del libero scambio", regia Marco Lorenzi

di Georges Feydeau
traduzione e adattamento Davide Carnevali
con Elio D'Alessandro, Christian Di Filippo, Federico Manfredi, Barbara Mazzi,
Silvia Giulia Mendola, Alba Maria Porto, Alessandro Bruni Ocaña, Beatrice Vecchione
regia Marco Lorenzi
scene Nicolas Bovey
costumi Erika Carretta
luci Francesco Dell'Elba
musiche Elio D'Alessandro
assistente alla regia Yuri D'Agostino
Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale

Prima Nazionale

Torino, Teatro Gobetti dal 1° al 20 dicembre 2015

www.Sipario.it, 2 dicembre 2015

TORINO - Fare teatro significa anche parlare del presente utilizzando un testo del passato sfruttandone tutte le potenzialità, inventando un linguaggio che lasci inalterato il senso delle azioni, ma al contempo le sappia colorare di rimandi e significati contemporanei. Ci riesce Marco Lorenzi, con il suo allestimento contemporaneo di un classico del vaudeville del tardo Ottocento, quell'Albergo del libero scambio metafora di un malessere che negli anni della "morte di Dio" faceva sentire i primi effetti. Fra le pieghe di una comicità che anticipa il teatro dell'assurdo (in particolare Ionesco e Beckett), Feydeau punta l'indice contro l'ipocrisia, ma diversamente da Arthur Schnitzler, che muove le medesime accuse con asburgica solennità, l'autore francese riscrive le regole del teatro, propone elementi drammaturgici di rottura, e porta con sé quel "vento della distruzione" che caratterizza l'Ubu di Jarry, anch'esso rappresentato per la prima volta nel 1896. A distanza di oltre un secolo, la regia di Lorenzi, affiancata dall'adattamento di Davide Carnevali, ci consegna intatta la verve rivoluzionaria di quello che soltanto in apparenza è una commedia degli equivoci. Si tratta, invece, di un'acuta, e amarissima, satira sociale, che stigmatizza l'ipocrisia dei rapporti fra uomo e donna, in un periodo, la fine dell'Ottocento, in cui quest'ultima iniziava ad affermare le sue prerogative, almeno in Occidente. Nel 2015, dopo il Sessantotto, il femminismo, la liberalizzazione dell'aborto, l'entrata delle donne nelle Forze Armate, il rapporto fra i due sessi ha subita un'ulteriore evoluzione, non necessariamente migliorativa. Il maschio è perlopiù intimorito dalla donna, non ne comprende più i desideri (non soltanto sessuali ma esistenziali), la segue come un cane al guinzaglio, con una sottomessa fiducia nella quale entra una buona dose di sospetto.
Su questi presupposti, si sviluppa una trama grottesca, scaturita da un fatto abbastanza banale: l'insoddisfazione matrimoniale di Madame Paillardin, nei confronti dello scialbo marito, architetto, amico e collega di Monsieur Pinglet. Fra questi e la signora scatta una stanca scintilla di passione carnale, che decidono di consumare all'Albergo del libero scambio. Qui, vi ritrovano una serie di conoscenti: il bizzarro Mathieu - afflitto da una miriade di tic nervosi che gli causano difficoltà di parola -, in compagnia della figlia di dieci anni, ma già esperta di pratiche sadomaso; Massimo, nipote di Monsieur Paillardin, un imbranato studente inesperto di sesso, alla quale lo inizia Vittoria, la procace cameriera di casa Pinglet; e infine, lo stesso Monsieur Paillardin, incaricato di scovare misteriose presenze esoteriche sospettate di infestare l'albergo.
Nella Torino dei nostri giorni, il testo di Feydeau adattato da Carnevali, assume il caldo e tragico odore delle pagine più ispirate di Pier Vittorio Tondelli, in particolare delle opere Camere separate, e L'abbandono, fra le pagine migliori della letteratura italiana contemporanea. Vi si ritrovano, infatti, la medesima solitudine, la medesima stanchezza, la medesima voglia di evasione. Carnevali e Lorenzi dimostrano un profondo senso del teatro, utilizzando le potenzialità di Feydeau per raccontare l'ipocrisia contemporanea. L'intero spettacolo si regge sulle menzogne, sugli atteggiamenti, sugli equivoci, ed è magistralmente sorretto da un cast che sviluppa una recitazione non soltanto verbale, ma anche e soprattutto gestuale, sfruttando al meglio il pathos dei silenzi e delle pause. Ne nasce uno spettacolo volutamente scombinato, simbolo del caos esistenziale moderno, dove il sesso sembra essere diventato una argomento di conversazione più che un atto concreto. Forse involontariamente, sotto l'effetto di stupefacenti, Marcella Paillardin confessa a Monsieur Pinglet la squallidezza della situazione, cioè il trovarsi, loro due, in quell'albergo equivoco per una notte di sesso senza amore, dovuta soltanto alla noia, e alla solitudine che in particolare affliggono la donna, che a differenza dell'uomo sembra provare autentica sofferenza per la "morte dell'amore romantico". Un amore con poco futuro, considerando che la procace Vittoria convince Massimo a lasciare gli studi per dedicarsi al mercato dell'hard. O la disinvoltura con cui Angelica, moglie di Pinglet, inventa una menzogna dopo l'altra per trascorrere la notte con l'amante (di cui intuiamo l'esistenza senza mai vederlo in scena).
Il concitato finale vede prima l'irruzione della polizia nell'albergo dove tutti sono ormai in preda a un assurdo panico, dove l'unico ad aver forse fatto sesso è Mathieu; Feydeau, già nell'Ottocento, squarcia il velo sull'incesto e la pedofilia, piaga, quest'ultima, ancora diffusa nella società occidentale. L'epifania finale è affidata alla cameriera Vittoria, che spiega all'ingenuo Massimo cosa sia "quella cosa che tutti possiedono, ma nessuno ha il coraggio di mostrare": l'ipocrisia. Tutti i presenti ridono dileggiando la ragazza, non volendo ammettere questa verità, al contrario ritornando al loro solito stile di vita.
La rielaborazione linguistica di cui è stato oggetto il testo originale permette al regista di costruire uno spettacolo dai toni ora fintamente epici, ora drammatici, ora picareschi, toccando così le più varie sfumature dell'umano sentire, dando piena attuazione a quella che già Feydeau considerava la "giostra della vita".
La scenografia - un interno borghese ultramoderno -, resta sempre la medesima, sia quando la scena si svolge in casa di Monsieur Pinglet, sia nei momenti all'albergo. Una scelta necessaria per costruire la metafora di quel senso monotonia e di prigionia esistenziale che affligge i personaggi, in particolare le donne. Sono loro, infatti, le vere protagoniste dello spettacolo, la vicenda prende le mosse dalle loro azioni, dai loro capricci, dalle loro voglie, relegando il maschio alla parte di comprimario-esecutore, a sottolinearne la pochezza, la sconfitta nella "gara della parità". A impreziosire lo spettacolo, le musiche di Elio D'Alessandro, virate su un caldo rock fra melodico e progressivo, che intercetta l'atmosfera urbana dei nostri giorni, umida, appiccicosa, illusoria, come una pagina di Tondelli o Bret Easton Ellis.
Da sottolineare la bellezza di alcune scene in slow-motion, con il sottofondo di una musica da carillon, simile a quello che, nel Gattopardo, suona il Carnevale di Venezia: è la metafora, scenica e sonora, di un mondo meccanicistico, dominato dagli istinti, più o meno biechi che siano. Alla fine dell'Ottocento come nel Duemila.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Mercoledì, 02 Dicembre 2015 12:09

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