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CLASSICA STORIA D'AMORE ETEROSESSUALE (UNA) - regia Francesca Merli

"Una classica storia d'amore eterosessuale", regia Francesca Merli "Una classica storia d'amore eterosessuale", regia Francesca Merli

Progetto I.T.A.C.A.

Ideazione: Francesca Merli, Camilla Mattiuzzo

Con: Davide Pachera, Laura Serena, Massimo Scola e un gruppo di spettatori in sala
Regia: Francesca Merli
Drammaturgia: Camilla Mattiuzzo
Movimenti Scenici: Elena Boillat
Musiche e sound design: Federica Furlani
Scene: Flavio Pezzotti
Light design: Isadora Giuntini
Video: Elena Boillat
Produzione: Domesticalchimia
Con il contributo di: Cantiere Moline, Emilia-Romagna Teatro, Armunia Inequilibrio Festival
Milano, Teatro Fontana 12, 13 ottobre 2018

www.Sipario.it, 14 ottobre 2018

Teatro senza pubblico sarebbe come dire "ghiaccio caldo e neve ardente". Rubando il paradosso di Teseo, duca del Sogno di una notte di mezza estate, si può distillare il punto debole (o forte?) di "Una classica storia d'amore eterosessuale". Il cast dello spettacolo di Camilla Mattiuzzo non è definito e nemmeno Francesca Merli lo circoscrive con rigore. È il teorema di Bernoulli dei grandi numeri che stabilisce a spanne quanti personaggi ne prenderanno parte. Ed è così che il palcoscenico del Teatro Fontana si allarga ed espande a macchia d'olio dalla prima fila alla lettera Z. Le luci restano puntate in pochi frammenti sul pulpito mentre la platea brilla di luce propria per quasi tutti i 90 minuti. I protagonisti non entrano da dietro le quinte, ma presentano la loro silhouette alzandosi dalle poltrone. Il primo a rivelarsi è un bambino di 11 anni (Massimo Scola), figlio non desiderato, che inizia l'ennesima psicoterapia con uno spettatore, buttato in scena senza permesso. Dal colloquio con il dottore aleatorio emerge che sono il padre e la madre le cause principali del malessere del paziente. Il rapporto familiare è graficamente espresso come terna di punti collegati, continuamente rotanti, che trasmette un senso di infinito. In ordine è la madre (Laura Serena) a presentarsi, inscatolata in una matrioska di stereotipi. Fa il suo ingresso con un guanto da cucina dopo aver appena bruciato un rollè nel forno e rotto la lavatrice. È preoccupata per il figlio, gli chiede se ha mangiato, se ha dormito, se ha pagato il dottore. Una mamma "emotiva all'80%", felice se (e solo se) lo è il figlio. Irrealizzata e apparentemente priva di ambizioni, prova a coltivare passatempi e praticare sport estremi ma la noia non l'abbandona. Terzo vertice del triangolo, il padre (Davide Pachera): un finto intellettuale che cerca di mantenere alto il ruolo di capofamiglia. L'idea di essere uno letterato affermato, al pari di Dostoevskij, si scontra con un disastro editoriale noto a tutti (madre, figlio, pubblico) e si traduce nella sua reale occupazione: scrivere necrologi. Con approccio retrosintetico si ripercorre la storia dei genitori dal primo incontro evidenziandone le differenze, fondate, a loro volta, su classici luoghi comuni. Tuttavia, ciascun personaggio conserva, nella propria individualità, una personalità ben distinta, posizioni affermate e gusti peculiari che esplodono nel vis-à-vis con gli ascoltatori. Gli unici ancora in grado di apprezzarne le sbavature caratteriali. I soli che, senza vergogna, regalano uno sguardo al seno della madre ormai dimenticato dal pater familias. Il sogno di una vita realizzata viene esportato in sala attraverso un recital di cui ciascun componente è protagonista: un figlio che si protegge con un casco, una madre che canta la bohème e un padre che affida il suo prossimo romanzo ad una ricerca antropologica condotta sul pubblico. Il figlio funge da collante in una coppia che non può continuare a nascondere l'elefante in salotto per sempre. Arrivato ai trent'anni e ancora in terapia, capisce certe dinamiche passate e acquista indipendenza. L'analista improvvisato non emette alcuna ricevuta ma applaude. Il resto del pubblico fa lo stesso.

Giovanni Moreddu

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Ottobre 2018 21:58

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