Scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Mortelliti
Scenotecnica di Simone Martino
Disegno luci di Simone Martino
Inserti musicali originali e audio di Simone Martino
Produzione Giuseppe Mortelliti
Ai Magazzini del Sale Teatro dei Naviganti di Messina 16-17 dicembre 2023
Foto di Alessio Trerotoli
Il tema del viaggio è sempre un ottimo pretesto narrativo. La storia dell’uomo è d’altronde permeata dalla nostalgia del distacco, dalla sete di scoperta, dalla ricerca della propria identità, dall’urgenza di coltivare l’anima e non di rado dall’incontro con l’altro che indirettamente agevola il salutare e opportuno approccio collettivo del vivere. Da un viaggio e dalla conseguente drammaturgia che assume le sembianze di un diario di bordo nasce così Con un quaderno nel portapacchi volume 1: Milano-Udine, prima tappa del progetto di scrittura di Giuseppe Mortelliti. Un progetto letteralmente a pedali che sul palco dei Magazzini del Sale Teatro dei Naviganti di Messina ha messo insieme vivacità, sperimentazione e uno sguardo delicato ancorché contemplativo sul mondo. Col sostegno della scenotecnica e degli inserti musicali originali di Simone Martino, che comprovano la misura mediana, tra il reale e l’irreale, di tutta l’operazione, Mortelliti porge al pubblico, a livello registico e attoriale, il resoconto d’una esperienza metafora del vivere stesso. Giacché pedalare, va da sé, richiama il tentativo di attraversare la vita. Ora con allegria, ora con fatica, ora con quella apprensione che precede ogni partenza. Con quella sacrosanta paura, appunto, che fa parte del gioco, che è l’ingrediente madre del primo passo, e di tutti gli altri a seguire, nel cammino verso la libertà, perpetuata nel monumento di Gorgonzola, di pavesiana memoria. Al pregevole trasformismo dell’attore, che non si risparmia nel vivificare tanto i volti della gente quanto – con l’ausilio di oggetti, drappi, trovate ingegnose – i paesaggi screziati che si avvicendano, va senz’altro ricondotto l’intento di narrare per immagini. Una questione di impatto, il richiamo all’universo fiabesco trasposto a teatro, la certezza di poter meglio tirare dentro lo spettatore, chiamato a interpretare il ruolo di un giunco o quello di un giocatore di morra in birreria. Ti si staglia insomma davanti agli occhi, come nel View-Master, il mondo a dischetti che coincide con le tappe di questo viaggio rigorosamente analogico, su una bicicletta che si chiama Girardenga e - particolare per nulla trascurabile - senza pedalata assistita. Una maniera dunque di scudisciare il presente che sottrae reale al reale, al pari del caffè senza caffeina, del tè senza teina, della birra analcolica, del teatro off coi biglietti ai 25 euro e della gente che non sa cantare. La virata dello spettacolo verso gli orizzonti, ben più ampi della tratta Milano-Udine, che chiamano in causa le assurdità dell’esistenza. O meglio, di questa esistenza. La forza di tutta l’operazione giace infatti nell’avvicendamento di luoghi, stati d’animo, aperture e chiusure di obbiettivo sulle cose, affondi e ritirate, oasi ove coesistono senza disagio incompiutezza e felicità. La scrittura di Mortelliti, che procede sovente per accumulo e talora si rassegna all’insensatezza del tutto, consegnandosi alle raffiche di pensieri disarmonici, scoordinati, malgrado ciò esatti, non si assesta su un unico codice comunicativo. Il linguaggio verbale e non verbale adoperato impone difatti all’attore una variatio interpretativa che riproduca il ritmo sincopato della scrittura. Il risultato legittima comunque ogni affanno. E quello lungo i bordi della strada, nell’imponderabilità del tempo e del destino, diventa uno di quei viaggi bellissimi di cui si conosce la meta, mai cosa attende esattamente durante il cammino. Diventa il miraggio, diventa per traslato la vita. Allora sfilano innanzi al pubblico uomini e cose che affollano e colorano questa vita: dai vacanzieri di Sirmione alla gente di paese senza prima persona singolare, dalla natura che non abbandona ai ponti inutili, dai legami che non si possono scegliere a quelli che si possono sciogliere. E, sparsi sul palcoscenico, corde, panni stesi ad asciugare, chitarra, pietra miliare, borraccia, macchina fotografica, cartelli, tutta una serie di cose che, al tocco, magicamente si animano e che sembrano non finire mai. Tutte cose che sono quello che vedi, ma sono pure altro. Nessuna deriva simbolista, però. Piuttosto l’attitudine dell’uomo a plasmare la realtà, a trasfigurarla, ad assegnarle un’ultima parvenza di sogno. Fosse anche nella solitudine voluttuosa e innocua di un minuscolo borgo, in quella diapositiva datata che contiene un mulino ad acqua e un Super Santos sgonfio, ma ancora buono per essere calciato. Giusi Arimatea