Con Iben Nagel Rasmussen
Regia, scenografia: Iben Nagel Rasmussen
Costumi: Antonella Diana, Lena Bjerregaard, Iben Nagel Rasmussen
Luci: Massimiliano Bini
Maschera afro: Fabio Butera
Testi: Iben Nagel Rasmussen, Vincent Gaeta, Jalal ad-Din Rumi
Musica: canti tradizionali elaborati
Un co-produzione Teatret OM e Vindenes Bro (The Bridge of Winds)
Festival “Arterie” – Chivasso, Chiesa di Santa Maria degli Angeli, 22 settembre 2024
Dove finiscono i personaggi di uno spettacolo dopo che lo spettacolo è finito? Forse stanno in quel limbo tra memoria dello spettatore e immanenza fisica nel corpo dell’attore; spiriti che dormono dentro una voce un gesto una postura; che attendono a una vita laterale, giocando a rincorrersi tra i impervi sentieri del corpo scenico: attraversano la montagna, lambiscono i mari, si levano al vento e mangiano la terra. Ma per farli emergere serve la lampada di Aladino dello spettacolo e l’atto di pulire – lo sfregamento, dalle potenzialità elettriche – che compiono il corpo dell’attore e l’occhio dello spettatore sulla parete profonda e convessa dello spazio preparato. Questi spiriti o fantasmi possono vivere anche lontano dall’orlo palpitante dello spettacolo, ché stanno cuciti nella carne dell’attore, compongono un abito di cheloidi coloratissimi, come se Arlecchino si facesse un costume delle proprie ferite e della propria infanzia, ma lo tenesse celato: una vita invisibile che muove la vita visibile. Ebbene, ogni volta che si vede all’opera Iben Nagel Rasmussen è inevitabile il sorgere di simili considerazioni. Perché Iben è un corpo-poesia abitato dal teatro degli spiriti; le sue performance una sorta di rito di evocazione, segnali da un al di là teso verso l’incandescenza della propria biografia artistica. Il fatto che questa biografia si indentifichi con la teatrografia dell’Odin Teatret e con la visionarietà di un regista come Eugenio Barba rende questo mondo ancora più articolato, potentemente vivo. “I Coralli della memoria” è il gesto di questo mineralizzarsi dei personaggi nella loro immagine ultima, consegnata all’oblio e insieme alla ciclica resurrezione delle cose di mare. E’ infatti il suono di una risacca ad accogliere gli spettatori che prendono posto nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Chivasso, per uno degli appuntamenti del festival di teatro diffuso “Arterie”, organizzato con cura e coraggio dal Teatro a Canone. Ai quattro angoli della scena dormono altrettante sembianze, ancora inattive. Sono gli involucri cui Iben darà accensione, i suoi ruoli negli storici spettacoli dell’Odin, sia colti dalla storia della drammaturgia occidentale (Edipo, o meglio il suo fantasma; Medea) sia dati al battesimo della vita artistica per via di creazione originale (Trickster, Pazzerella, Krinolina): le maschere, gli abiti, gli accessori, il canto. Qui Iben tenta un metateatro tutto suo, intimo e personale, mettendo in dialogo personaggi distanti nel tempo. Il tema è la multipla identità dell’attore che contrasta con la paradossale, ironica – e buffa – domanda di stabilità della maschera: ed è Trickster, l’Arlecchino nordico di “Talabot”, che taccia di “tradimento” l’attrice che si moltiplica. Ma è anche l’affettuosa protesta della stessa che riconosce nella propria creatura una vita che quasi la esclude: “ho sudato per te, ho scavato dentro di me un canale per farti uscire sul palco (…) Alla fine mi sono messa la maschera e poi – puff! Tu salti fuori a prendere l'applauso”. I coralli della memoria sono evocati in avvio da un frammento del poeta greco George Seferis, e le ombre che man mano emergono dall’oblio dal celebre incipit del “Faust” di Goethe: “Avvicinatevi ondeggianti figure/ Apparse in gioventù allo sguardo offuscato”. Ed ecco lo spirito di una generazione giovane in quegli anni ’60 e ’70 così fertili di sperimentazioni esistenziali e artistiche, farsi voce, giudizio, esortazione: netta nella condanna dei tempi che viviamo, lasciando alla piccola luce di una fiamma tremolante (candele illuminano da vicino le figure) e al canto, all’arte, il compito di fare ammenda dei tempi bui: “Sono piena – sto vomitando l’oscurità. Il grande sogno luminoso è naufragato. Noi che siamo stati bagnati dalla luce convinti di averla anche creata e diffusa ci stiamo chiedendo: dove, come, quando è perché sono state sepolte le nostre voci?”. Franco Acquaviva