Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro
ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni
con Fabrizio Gifuni
produzione Associazione Cadmo
al teatro Ponchielli, Cremona, 26 marzo 2025
Ognuno ricorda esattamente dov’era e cosa stava facendo il giorno del rapimento di Moro, oppure del ritrovamento del suo corpo. Moro è un fantasma che ritorna, che vive nella nostra memoria, è una cesura indelebile nella storia del Paese. Su questo – si crede – abbia lavorato Fabrizio Gifuni portando in scena Con il vostro irridente silenzio, monologo tratto dalle lettere e dal memoriale dei 55 giorni di prigionia, un diario lucido e spietato, un documento storico a tratti sconvolgente, ma soprattutto la storia di un uomo lasciato solo, abbandonato dai suoi, che chiede aiuto e non ne riceve. Gifuni ha ritenuto opportuno far precedere il monologo da una circostanziata introduzione in cui ha spiegato la genesi di quelle lettere, la loro scottante importanza e al tempo stesso il fatto che quegli scritti siano rimasti lettera morta, carte per gli storici, carte mute per la coscienza collettiva del Paese. La premessa è un servizio di contestualizzazione a favore di chi la prigionia di Moro e il suo sacrifico li vive come pura storia e di chi quegli anni li visse o li annusò, un ripasso memoriale che fa bene ai più e aiuta i più giovani a capire. Fatto questo, Gifuni con una falcata da fenicottero entra nel quadrato scenico, una sorta di giardino zen, disseminato di fogli, con una scrivania a destra, un microfono in mezzo, un cumulo di polvere bianca, una sorta di simbolo lustrale, un monito a quell’esser polvere che tutti accomuna. Quell’entrare in scena è metamorfosi. Da quel momento in poi Gifuni è altro da sé, fa un profondo respiro ed è come se entrasse in apnea. È questa la sensazione del suo stare e recitare. Lì al centro, davanti al microfono, la parte inferiore del corpo è quasi immobile, a muoversi è il torso, le mani che volano nell’aria e tengono in mano i fogli delle lettere e del memoriale, ogni tanto si passa la mano sulla fronte, indica Zaccagnini, Andreotti, Cossiga, implora papa Paolo VI, quelle mani pregano e indicano senza possibilità di perdono chi ha decretato la sua morte, il suo sacrificio. Fabrizio Gifuni a tratti assume una posizione fisica che ricorda lo statista, non lo imita, non ne fa il verso, ma è come se la vera voce di Moro risuonasse, e non si tratta di gigioneria d’attore, ma quasi di un transfert emotivo e verbale. Pur col rischio di un andamento monocorde e una netta separazione fra il lato provato delle lettere e la riflessione pubblica del memoriale, Con il vostro irridente silenzio fa udire, fa apprezzare la lingua di Moro, del Moro della prigionia, lontana da quella dello statista che poteva parlare per ore sgusciando dai problemi, dicendo il nulla, o meglio dicendo cifratamente cose ai comuni cittadini poco comprensibili. Si veda su youtube il commento alle amministrative del 1962 e si faccia un confronto col Moro della prigionia, con la lingua di quelle lettere inviate alla moglie, agli amici della Democrazia Cristiana, ad Andreotti e a Cossiga, a papa Paolo VI. È una lingua lucida e tagliente che Gifuni è come se avesse ‘sniffato’ e la soffiasse dal palco, se ne liberasse come oppresso da un peso, come una sorta di camera d’aria che si sgonfia, si libera e il vento delle parole indicibili, dei segreti di Stato, della politica del potere contro la politica dell’etica ci investisse per mezzo del corpo dell’attore. Il contenuto è potente, il dolore pure, l’accusa di non lucidità mossa a Moro e alle poche lettere fatte trapelare dalle Brigate Rosse sa di condanna a priori da parte di chi sta fuori, laddove i suoi carcerieri non avevano ancora deciso l’esecuzione che si compie nei cinque giorni ultimi, in cui Moro non scrive più. Con il vostro irridente silenzio non solo offre in presa diretta il dramma di un uomo, non solo restituisce un pezzo di storia recente, ma soprattutto è un’azione che mostra e dimostra come il teatro sia l’ultimo, fragilissimo baluardo di democrazia, il luogo in cui i copi si incontrano, si sfiorano, si annusano, dialogano con l’attore. La sensazione finale è quella di essere tutti Antigone alla presa con la sepoltura dei fratelli, divisa fra la legge della politica e quella del cuore. Nicola Arrigoni