Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro
ideazione e drammaturgia Fabrizio Gifuni
con Fabrizio Gifuni
Teatro Astra, Torino 4 - 6 aprile 2025
Un progetto in due spettacoli, ma non solo un dittico: più che altro, una duplice esperienza medianica, per invocare spettri impegnativi; protagonisti del Novecento italiano, da vivi e anche adesso in spirito. I fantasmi stavolta hanno un nome, Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro, mentre chi fa da tramite nella comunicazione tra “noi e loro”, il medium, è Fabrizio Gifuni. Drammaturgo e ideatore del progetto intitolato I Fantasmi della nostra Storia (in scena al Teatro Astra di Torino), Gifuni mette mano a un materiale scrittorio mastodontico, prezioso e che richiede una responsabilità elevata, coraggiosa; scava nel torbido, si insinua – con la propria coscienza di uomo e di artista – tra i misteri più spinosi e divisivi della storia recente. I fantasmi della nostra storia è un viaggio doloroso e civile, dunque necessario, che avviene in due tappe (rispettivamente dedicate a Pasolini e a Moro): Il male dei ricci e Con il vostro irridente silenzio. Nel secondo, in particolare, il cui sottotitolo è Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, Gifuni (in camicia bianca e pantaloni scuri, al centro della scena vuota, dove una sola luce potente si staglia cadenzando le sequenze narrative) ricostruisce i 55 giorni di prigionia del leader democristiano, dalla strage di via Fani, al sequestro, fino alla condanna a morte e al ritrovamento del suo cadavere. Moro profeta della cattiva coscienza italiana (esattamente come Pasolini): premonitore di quel che la società sarebbe diventata (smidollata, pigra e indolente). Accusatore lucido delle istituzioni, che lo ignorano prima e ne calpestano il corpo poi. Per due ore, instancabilmente, Gifuni si infila nelle membra oltraggiate di Aldo Moro, dando l’anima (oltre che la voce) alle lettere da lui scritte durante la prigionia e al memoriale frutto degli interrogatori delle Brigate Rosse. Ogni espressione, gesto, cambio di ritmo (tra l’affranto e l’allarmato, febbrile) e intonazione dell’attore/drammaturgo è un rivivere l’angoscia, la fede, l’umiliazione di un uomo incrollabilmente lucido fino all’ultimo, eppure umiliato dai compagni di partito, che preferiscono mettere in dubbio il suo equilibrio mentale per ragioni di convenienza. Emoziona la performance di Fabrizio Gifuni, il cui merito principale (secondo chi scrive) sta nel rendere con grande rispetto la dignità estrema del segretario della Democrazia Cristiana, aggrappato all’amore per i familiari (unica fonte di speranza e di amore, in uno stato di abbandono e discredito trasversale). A ogni levar di braccia di Gifuni in palcoscenico, si rinnovano la tensione nel pubblico, l’ansia di conoscere e ascoltare l’inudibile, ma anche il desiderio di restituire giustizia all’uomo e una degna sepoltura al suo corpo. Oltre alle lettere dirette alla moglie Noretta, ai figli Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni, al nipote Luca (poi anche ai compagni di partito, il segretario Zaccagnini, il ministro dell’Interno Cossiga, il presidente del Consiglio Andreotti), Fabrizio Gifuni lavora alacremente e da anni al memoriale ritrovato a Milano in via Monte Nevoso, nell’ottobre 1990 (quarantanove fogli dattiloscritti). Lo spirito e l’impegno civile che animano Gifuni nella sua impresa si può riassumere in una recente dichiarazione al quotidiano La Stampa: «Il teatro ha ancora il grande potere di richiamare persone che vogliono condividere pensieri, sentimenti, emozioni. Specie in tempi come questi, che somigliano a un incubo distopico, una maionese impazzita». Giovanni Luca Montanino