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COPENHAGEN - regia Mauro Avogadro

Copenhagen Copenhagen Regia Mauro Avogadro

di Michael Frayn
Traduzione di Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi
Regia di Mauro Avogadro, Scene di Giacomo Andrico, Costumi di Gabriele Mayer
Luci di Giancarlo Salvatori, Musiche di Andrea Liberovici
Con Giuliano Lojodice, Umberto Orsini, Massimo Popolizio
Produzione: CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG; ERT Emlia Romagna Teatro Fondazione
Roma, Teatro Eliseo, dal 11 al 23 maggio 2010

Il Messaggero, 15 maggio 2010
www.Sipario.it, 8 maggio 2010
Tris d'assi vince

E' una fortunata commedia di Michael Frayn diretta da Mauro Avogadro, titolo Copenhagen. In scena all'Eliseo fino al 23 maggio, dà voce, più che a un testo ben costruito ma sicuramente e volutamente didattico (se non didascalico), a tre eccellenti attori, Giuliana Lojodice, Umberto Orsini, Massimo Popolizio. I quali, di fronte a una platea di spettatori nella generalità poco informati sulle questioni scientifiche di cui tratta il copione, mostrano e dimostrano la loro arte. Per conquistare, irretire, esibire, mostrare, far capire. Bravissimi. Preparati, sapienti, ancora capaci, nonostante le non comode e non amicali condizioni dei tempi, di credere con forza nella loro professione. Nella Parola, ad esempio. Che la commedia di Frayn tesa a raccontarci il complesso rapporto fra due famosi fisici, il danese Niels Bohr e il tedesco Werner Heisenberg, testimoni la moglie del primo, Margrethe, e il fungo micidiale dell'atomica dispensa a piene mani. Mentre la regia di Avogadro, per parte sua, non insidia con "trovate" speciali nulla e nessuno. Impera infatti il gusto del personaggio (un godimento la vaghezza di Orsini-Bohr, l'isteria di Popolizio-Heisenberg, il criticismo domestico della Lojodice-Margrethe). E ci sono pazienza (ne occorre tanta per imparare, rendendoli propri, testi come questo) e coscienza (un discorso "alto" ci sta sempre bene). Bisognerebbe proprio amarli, i nostri attori italiani. Ottima stirpe. Meno asettici degli anglosassoni, più "viziati" e, quando hanno talento e scuola, come il tris d'assi in scena all'Eliseo, imbattibili.

R. S.

Copenaghen del drammaturgo inglese Michael Frayn, noto in Italia per i suoi Rumori fuori scena portati al successo per parecchie stagioni dal compianto Attilio Corsini, è un lavoro in cui le parole regnano sovrane. Parole etiche, morali, scientifiche ricche di formule chimiche e fisiche che capisce il 50% degli spettatori. Eppure è un lavoro che affascina e che si segue con interesse e curiosità come un giallo, come un thriller scientifico-politico, innescato dai due formidabili protagonisti, Massimo Popolizio e Umberto Orsini rispettivamente nei panni dei due fisici il tedesco Werner Heisenberg che formulò per primo il principio di "indeterminazione"e l'ebreo-danese Niels Bohr padre della fisica quantistica, entrambi premi Nobel, i quali utilizzano la parola come un fioretto per un duello verbale, arricchito con l'ingresso d'un terzo personaggio, Margrethe, moglie di Bohr (vestita con altrettanta bravura da Giuliana Lojodice) con cui si allarga una disputa etica a tre voci, pregna di angoscianti riflessioni e interrogativi quattro anni prima del primo devastante utilizzo della bomba atomica a Hiroshima. La vicenda realmente accaduta in una Danimarca occupata dai nazisti, è ambientata nel settembre del 1941 a Copenaghen e ricostruisce metateatralmente l'incontro dei due autorevoli scienziati conosciutisi nel 1910 al tempo in cui Heisemberg era discepolo di Bohr. Adesso dopo tante ricerche effettuate insieme, i tre personaggi si guardano in cagnesco per colpa d'una guerra che li ha messi l'uno contro l'altro e si ritrovano come fossero dei fantasmi ritornati dal passato, imprigionati in un groviglio di domande alle quali stentano a dare una risposta, sommersi da dubbi logoranti sul rapporto tra potere, scienza e morale. E l'argomento che risulta chiaro è che se i due scienziati avessero parlato prima, se avessero svelato le loro ricerche, i tedeschi sarebbero entrati in possesso della bomba atomica prima degli americani. Gran bel lavoro di regia di Mauro Avogadro che sintetizza il lavoro di Frayn in poco più di due ore ed è nera la scena di Giacomo Andrico come le tante lavagne di ardesia sul fondo tempestate di formule e calcoli segnati con bianchi gessetti e si dispiega con i suoi cinque scaloni in discesa come un piccolo teatro antico su cui stazionano tre sedie metalliche spostate di continuo dai tre protagonisti per trovarvi le posture più consone, vestiti con abiti color grigio-antracitee sui i quali a volte rintronavano cupi e sinistri suoni.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Domenica, 11 Agosto 2013 16:11

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