di Tirso de Molina
drammaturgia e regia: Emilio Hernández
scenografia: Francisco Leal, costumi: Helena Sanchis, coreografia: Juan Carlos Lérida
con Fran Perea, Isabel Pintor, Lluvia Rojo, Marina San José, Ana Salazar, Manuel Tejada, Juan Fernandez, Enrique Arce, Jorge Roelas
Napoli Teatro Festival Italia - prima assoluta
Napoli, Real Albergo dei Poveri, 21 e 22 giugno 2008
Anche lo spettatore di teatro (come quello dei concerti rock) ha attese e desideri. Più volte si è sperato di veder prendere il registro selvaggio, primitivo, caliente al Don Juan, el burlador de Sevilla di Tirso de Molina, allestito da Emilio Hernández. E invece no. «Mas que mil» sono state le donne da lui ingannate in Spagna? Almeno qualche centinaio gli spettatori al Napoli Teatro Italia Festival. Se qua e là echeggiano arie dal Don Giovanni mozartiano, le serve di scena intonano invece motivetti, muovendosi in abiti succinti come le Spice Girls... E si alza pure un' accorata e roca cantata tradizionale a commentare la fregatura di cui è vittima la pescatrice, forse il solo gesto scenico che - con il balzo di Don Juan-Fran Perea sul tavolo per sfidare il promesso sposo - fa girare energicamente la chiave registica. A deludere non sono certo i bei corpi nudi o gli accoppiamenti dei medesimi nell' ombra, ma una rigida comparsata dei personaggi, se si esclude il Catalinón di Jorge Roelas che sa di coeva commedia dell' Arte. Tra gli spettacoli ispanici gioca assai meglio il carnascialesco Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibtrio sopra un uovo del colombiano Vargas.
Claudia Provvedini
Dopo vari allestimenti ben definiti e convincenti sotto il profilo strutturale ed espressivo, stavolta il Napoli Teatro Festival Italia ci ha presentato all'Albergo dei Poveri uno spettacolo - «Don Juan, el burlador de Sevilla» - che poteva essere e non è: nel senso che il regista, Emilio Hernández, ha in partenza delle buone intuizioni, ma poi o le lascia nelle note pubblicate nel programma di sala o le vanifica in corso d'opera. Prima di continuare, però, sarà bene descrivere, sia pure per sommi capi, l'oggetto drammaturgico in questione. Si tratta di «El Burlador de Sevilla y Convidado de piedra» di Tirso de Molina, la prima (è datata 1630) incarnazione scenica compiuta della leggenda centrata su Don Giovanni. Il testo originale procede su due piani distinti: da un lato quello realistico riconducibile alle commedie di cappa e spada e dall'altro quello fantastico-simbolico che in Spagna trovò la sua più articolata manifestazione teatrale nell'«auto sacramental». E ne conseguono, nello stesso tempo, lo schematismo dei personaggi derivato dalla tradizione novellistica e istrionica e una rapidità dell'azione spinta sino ai limiti dell'astrazione, sì da sfociare in un autentico clima di «mistero» (ovviamente nel senso medievale del termine). Da qui, peraltro, discende la contraddizione di cui vive il Don Juan di Tirso: la sua fede in Dio è pari soltanto alla trasgressione che irrimediabilmente la nega. E forse che non possiamo riconoscere, nell'incoerenza del Burlador, persino lo scarto di oggi fra le parole e i comportamenti della politica? Ci ha pensato, in effetti, Hernández. Tanto che, giusto nelle note di regia, scrive fra l'altro: «Tirso parla della corte di Alfonso XI per non parlare della propria. E noi potremmo parlare della nostra epoca, dell'inizio del XXI secolo». Ma poi, come anticipavo, nello spettacolo la «nostra epoca» non compare, o almeno non è riconoscibile. Ugualmente, se all'inizio l'amplesso fra Don Giovanni e la duchessa Isabella (una scena di nudo totale, forte e spinta) si combina con la formalizzazione radicale dell'opera lirica (l'accenno al «Madamina! Il catalogo è questo» di Mozart), siamo a un'efficace sottolineatura del doppio registro, realistico/simbolico, di cui sopra. Ma in seguito la regia - continuando ad infilare nel testo di Tirso materiali «altri» - finisce per lasciarsi prendere la mano e approntare (tra il flamenco e i pantaloni da torero affibbiati al gran seduttore) nient'altro che un bel dépliant turistico. Questo, naturalmente, a prescindere dalla prova - nel complesso discreta - degli interpreti. Ma certo un po' di confusione (anche perché lo spettacolo era in spagnolo e senza sovratitoli) nella testa degli spettatori c'è entrata.
Enrico Fiore