di Vittorino Andreoli
Con Gigi Mardegan
Adattamento e regia di Roberto Cuppone
Revisione linguistica di Emilio Gallina
Scene di Stefano Merlo
Costumi di Antonia Munaretti
Luci di Daniele Conte
Scelte musicali Alberto Adustini
Cinema-Teatro Cristallo di Oderzo (TV), 14 dicembre 2018
"Dentro di me e dentro il mio teatro sono certo che un po' di follia c'è". Così scrive Vittorino Andreoli nell'introduzione al volume che raccoglie la sua produzione teatrale in lingua e in dialetto (Un posto in platea: trame teatrali, uscito per Rizzoli nel 2005). I testi dialettali, in particolare, pur essendo profondamente radicati nella cultura d'origine dell'autore, quella veneta, contadina e cattolica, riescono a trascenderla per l'universalità dei temi affrontati: la vita terrena e ultraterrena, i bisogni corporali primari (cibo, sesso ecc.), la moralità e la giustizia, l'amore. Andreoli, da scienziato-artista del Novecento, si innesta nell'alveo della civiltà teatrale veneta (risalendo direttamente al capostipite Ruzante) mettendo in campo lo sguardo dello psichiatra per indagare senza remore nell'animo umano e in se stesso. Tratto distintivo dei suoi testi in dialetto è la dirompente sincerità del flusso monologico del personaggio-narratore il cui andamento erratico rinvia sia all'autenticità di un colloquio psicologico o semplicemente di una confessione, sia all'inventività di gag verbali e situazioni comiche alimentata dalla verve improvvisativa dell'affabulatore. Il palcoscenico del teatro di Andreoli oscilla, in modo spiazzante per la platea, tra la dimensione del teatro da camera in cui campeggia un immaginario lettino da seduta psicanalitica e quella della piazza o strada paesana dove il popolano prende gusto a raccontare il proprio vissuto e a tirare le somme, con filosofia spicciola ma essenziale, sul senso della vita.
Ne El morto il personaggio protagonista è un contadino, catapultato in una condizione fantastica e paradossale: pur essendo defunto, è ancora "vivo", ma prevalentemente in spirito, con un corpo da trentatreenne, quasi del tutto insensibile e in cui, soprattutto, il cuore non batte più. Il suo destino è ancora ignoto; insieme ad una folla di altre anime trentrateenni, non concordi tra loro sull'esistenza dell'Onnipotente, attende in una specie di piazza l'arrivo di un treno la cui destinazione non è stata precisata. Sin dal principio il contadino sente nostalgia della vita terrena e tenta di fuggire. Si farà adescare, nientemeno che da un Belzebù in versione pop, un po' giovane ribelle e un po' epicureo, il quale, promettendogli il ritorno in vita, tenterà di asservirlo ai propri voleri, non senza aver prima aperto gli occhi al "povero diavolo" sull'inesistenza dell'Inferno.
I tratti distintivi del personaggio del "morto", pur essendo riconducibili all'epoca contemporanea, affondano le radici nell'antica cultura contadina: ingenuità e furbizia si associano al buon senso e ad una forma si saggezza maturata in secoli di subordinazione alle classi più elevate, alla Chiesa e alla Natura. La sua "follia" è quindi in primis, pirandellianamente, una forma di demistificazione e liberazione dall'ideologia dominante, sia essa quella cattolica repressiva con l'infrazione dei tabù sessuali, che quella dei ceti dominanti (rappresentati da intellettuali, medici o semplicemente dai "siori"). La tensione utopica verso un "paradiso in terra" in cui prevalgano l'uguaglianza, l'amore, la verità e la libertà, alimenta forme di contestazione provocatorie e blasfeme come ad esempio l'incitamento a rubare ai ricchi o l'esortazione ad abolire la morte che preclude nell'uomo la volontà di migliorare la propria condizione e quella della convivenza civile.
L'adattamento drammaturgico e la regia di Roberto Cuppone, oltre ad operare dei tagli sul testo originale (trasposto nell'idioma trevigiano con attenzione e sensibilità dal poeta Emilio Gallina) che ne hanno mitigato la carica oscena e dissacrante, ha reinventato l'ambientazione della pièce in chiave sia realistica che favolistica. Il contadino si è ritrovato così in una lavanderia d'altri tempi, tra panni stesi, carriole, una fontana d'acqua a pompa e una grande pignatta fumante, a raccontare, come in un filò, la sua strana storia ad un immaginario gruppo di tre donne denominate Marie, con significativo riferimento alla loro ascendenza religiosa oltre che popolare. Tutti gli arredi di scena ideati da Stefano Merlo, dalle morbide tinte bianco-grigie intonate a quelle del costume del protagonista, sono stati usati da quest'ultimo per esplicitare le varie fasi della narrazione attraverso una scansione recitativa dal ritmo regolare e il respiro arioso, in linea con l'atmosfera da parabola della rappresentazione.
Gigi Mardegan ha infuso naturalezza e spontaneità alla narrazione del contadino creando un clima di familiarità e complicità col pubblico grazie alle native risorse del dialetto e alla capacità di rappresentare, attraverso un'icastica espressività, sia fisica che verbale, sentenziosa, fantasiosa e colorita, le stratificazioni della mentalità popolare di cui permangono tutt'oggi sopravvivenze, oltre che la memoria. Un rustico, il suo, pieno di vitalità, irruento, sensibile, scherzoso, riflessivo, rappresentante di un'umanità che va oltre la classe di appartenenza, come testimonia il costume di pregevole fattura di Antonia Munaretti, le cui toppe e lacerazioni rimandano all'iconografia della maschera dello zanni in grado, secondo la tradizione medievale, di viaggiare nei regni ultraterreni. L'attore trevigiano ha dato anche prova di grande versatilità nella caratterizzazione dei vari interlocutori del "morto": gli amici paesani, la moglie, le anime del Paradiso, il Diavolo. In quest'ultimo caso Mardegan, entrando e uscendo dalla parte, ha creato un clima di tensione intriso di ironia che ha contribuito in modo significativo alla percezione di quella vertigine nell'esplorazione dell'aldilà che mi pare il fine ultimo della originale forma di teatro dell'"inconscio collettivo" costituita dalla produzione drammaturgica di Andreoli. La follia intesa come paura della morte, esorcizzata attraverso la scrittura autoanalitica dell'autore veronese, trova la sua ideale realizzazione scenica nell'offerta di sè che Mardegan attua nei confronti del pubblico cosicché la dedizione al teatro dell'attore fa il paio con l'amore dello scrittore per l'umanità alla base della sua arte oltre che della sua pratica professionale di psichiatra.
Lorenzo Mucci