Tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo Visitilli, edito da Einaudi Editore
adattamento e regia di Riccardo Spagnulo e Giancarlo Visitilli
con Luigi D’Elia
video Bob Cillo
Cartoonista Alessia Tricarico
In collaborazione con I bambini di Truffaut
Teatri di Bari in collaborazione con Cooperativa sociale I bambini di Truffaut
A Bari, Teatro Kismet, debutto il 27 novembre 2022
"Professò, se ti vuoi insegnare la scuola, te la imparo io". È la frase sulla scuola più bella che abbia mai sentito”, chiosa Luigi D’Elia quasi al termine dello spettacolo, impersonando il professore di lettere di un istituto di Bari alle prese col ritorno a scuola, e il suo svolgimento durante tutto l’anno, di una classe nell’anno della maturità. Per più di un’ora ci ha introdotto, guidato, fatti partecipi, fino a commuoverci, di quel mondo sconosciuto ai più adulti, che è l’aula di una scuola. Con le vite e le storie di ragazzi che da lì dovrebbero poi prendere il volo. E sapere affrontare il mondo. Con tutte le sue luci e ombre, i sogni e le sfide, le incognite e le aspettative. È tratto dal libro di Giancarlo Visitilli “E la felicità, prof?” (Einaudi editore) lo spettacolo omonimo del regista e attore Riccardo Spagnulo, che lo ha anche interpretato passando ora il testimone al bravissimo Luigi D’Elia (debutto al Teatro Kismet di Bari, produzione Teatri di Bari e associazione I bambini di Truffaut). E non poteva esserci interprete più appropriato, perché attore tra i più autorevoli di un teatro di narrazione vitale, mai scontato, presenza empatica per passione innata, per sensibilità scenica e posture d’anima. All’essenziale messinscena bastano un banco di scuola, una sedia, uno schermo con immagini (di Bob Cillo) prima di mare, poi di una finestra che dà su dei palazzi cittadini e sui cui vetri scorrono le stagioni, infine proiezioni grafiche (di Alessia Tricarico), il tutto dosato da poche luci e alcuni brani musicali ad hoc. D’Elia, con zainetto in spalla da cui estrae libri, arriva dalla platea e raggiunge quel quadrato del palcoscenico che racchiude il mondo. Avvince subito raccontando via via storie che parlano di diversità, di malattia, integrazione, violenza, anoressia, ma soprattutto, dietro tutto, di amore: amori adolescenziali, amore per la vita di un bimbo che nascerà e che forse non conoscerà il padre, amore per lo studio conquistato, amore per la propria professione, quella di un docente che impara ad amare i suoi alunni considerandoli innanzitutto persone. Coincide con l’esperienza di insegnante dell’autore di “E la felicità, prof?”, che ha fatto propria la richiesta ultima degli studenti, insita o esplicita: quella di insegnare loro semplicemente “a non rinunciare alla felicità”. E coincide col fare teatrale di D’Elia, quel sano teatro d’attore e di testo attraverso cui, dando voce a personaggi e storie di valore, si aderisce alla vita più pienamente. C’è nel libro - e nell’adattamento teatrale solo in parte – una summa di aneddoti di vita scolastica quotidiana raccolti in anni di esperienza diretta di Visitilli, parole e riflessioni personali scaturite da vicende reali ascoltate e condivise, vissute insieme tra compagni di classe e professore, tra scritti, lettere, gite fuori porta, crisi personali e ansie, problemi famigliari, interrogativi e confidenze, riottosità allo studio, questioni politiche trattate velocemente, passando per cenni di cinema e letteratura contemporanea. Un viaggio dentro la scuola, quella odiata delle coniugazioni e delle interrogazioni, quella ancora inadatta alla vera formazione, ma anche quella amata. La scuola che è un viaggio della vita. Si può scoprire qualcosa di sé stessi insegnando? È la domanda ultima dell’attore/prof in questione, che vale anche per lo spettatore che può imparare e scoprire qualcosa di sé stesso ascoltando, lasciando libera la mente, e il cuore, sapendo di non conoscere. E lasciarsi catturare dalla magia del teatro, che è sempre scoperta di qualcosa di nuovo, orizzonte che può aprire squarci inattesi di bellezza, pur in una storia con più storie, che potrebbe apparire retorica, sentita più volte. Già, perché parlando di scuola sembra che il racconto di essa, sia un filone ormai esaurito. Quello di “E la felicità, prof?” invece l’ascoltiamo con meraviglia per la prima volta. Lo riascoltiamo una seconda ed è ancora come se fosse la prima. Nuovo. Inedito. È quanto ho sperimentato assistendo, o meglio, partecipando, a due repliche dello spettacolo: quella serale col pubblico prevalentemente di adulti, e l’altra con tutti ragazzi in una matinée. Esperienza, quest’ultima, che dà la temperatura del rapporto d’identificazione, di ciò che passa dal palcoscenico alla platea, del contagio che D’Elia sa trasmettere, l’attenzione e la relazione che sa instaurare, con leggerezza e profondità. Bisogna lasciarsi andare al flusso di parole, di sguardi, di gesti, di espressioni che l’attore pugliese sa elargire, dosare, porgere, dire con affabile grazia, con acutezza e verità di affondi, di segni nell’aria che si depositano in scena, di toni vocali che aprono visioni, danno consistenza a volti, suscitano sentimenti, toccano corde sensibili facendoci sentire più fragili nelle nostre certezze, e più umani. Perché, citando Italo Calvino ripreso da D’Elia, “anche a vivere si impara”.
Giuseppe Distefano