di Gianni Clemente
Regia di Pierluigi Iorio
Interpreti: Nancy Brilli, Fabio Bussotti e Claudio Mazzenga
Aiuto regia: Federico Le Pera
Scene: Alessandro Chiti
Costumi: Josè Lombardi.
Light designer: Javier Delle Monache
Produzione: Miele Produzioni – Società per Attori Roma
Teatro Vittorio Emanuele di Messina dall’11 al 13 aprile 2025
Non credo che 15 anni fa quando Ornella Muti interpretò centinaia di volte il ruolo di Immacolata nella pièce di Gianni Clemente, L’Ebreo, ci fosse nel mondo uno spirito antisemita nei confronti degli ebrei e dello Stato di Israele. Tutt’altro. Si stava da parte di colui che non si vede mai in scena e che fidandosi del suo dipendente Marcello Consalvi, al tempo in cui entrano in vigore le leggi razziali (1938) contro gli ebrei e non solo, intesta a suo nome appartamenti, negozi e ogni bene, sperando di rientrare in possesso allorquando sarebbe tornato da uno di quei tanti lager nazi-fascisti. I fatti che si raccontano nella commedia di Clemente, messa in scena svogliatamente da Pierluigi Iorio al Teatro Vittorio Emanuele di Messina sempre plaudente, che certamente trovano riscontro nell’aneddotica romanesca, avvengono nel Ghetto d’una Roma del 1956, ammantata di neve, e in un salotto d’un appartamento sfarzoso, tendente al kitsch per via di ampi tendaggi pitturati d’un rosso/rosato (la scena è di Alessandro Chiti), dove vivono agiatamente i due coniugi, vestiti qui da una Nancy Brilli sempre in una forma spumeggiante che alle prime si stenta a riconoscere con quella parrucca rossa, preferita ai suoi capelli biondi e da un imbranatello Fabio Bussotti che ha preso il posto di Duccio Camerini. Si apprezzano le ricche vestaglie della Brilli e il suo bel tailleur rosso con cappello nero a disco (i costumi sono di Josè Lombardi), mentre Bussotti continua a lavorare nel negozio di stoffe dell’Ebreo. E se la donna si adagia nella ricchezza, è l’uomo a vivere pensando ad un possibile ritorno dell’Ebreo, che avverrà per incanto sia pure dopo 13 anni, suonando il campanello d’una porta, fornita di occhialino, che nessuno mai gli aprirà. Immacolata è donna cinica e calcolatrice e per niente al mondo vuole perdere lo status raggiunto. Fa gli occhi belli al marito in una scenetta che ricorda quel film di De Sica del 1963, Ieri, oggi, domani, con una Loren che seduce Mastroianni con la musichetta di Abatjour: non prova vergogna a dire “come è potuto succedere che quell’uomo si sia salvato miracolosamente tra tanti milioni di ebrei bruciati nei forni crematoi”, tingendosi la pièce di giallo quando chiederà d’essere aiutata dall’amico idraulico, il Tito di Claudio Mazzenga, sedotto da lei in precedenza, che si esprime solo in romanesco e che malvolentieri accetterà di aiutarli dopo che l’Ebreo verrà colpito con un bastone e tutti insieme avvolgendolo in un tappeto si libereranno del corpo. Che non è quello dell’Ebreo ma d’un poveraccio di loro conoscenza conosciuto dalle pesanti scarpe in primo piano. Il finale, che non riveleremo, è ancora più tragico, surreale, pure grottesco, con la scena che verrà coperta da un ampio lenzuolo, senza sapere che fine ha fatto l’Ebreo. Gigi Giacobbe