di Samuel Beckett
regia: Peter Brook
con Jos Houben, Kathryn Hunter, Marcello Magni
collaborazione alla regia: Lilo Baur, Marie Hélène Estienne
luci: Philippe Vialatte
Roma, Teatro Valle, dal 20 al 25 novembre 2007 (prima nazionale)
Perfezione, umiltà di Brook
Gli spettacoli di Peter Brook di questi ultimi anni sono tutti uguali: discreti, mai uno strappo nel tessuto stilistico, brevi, perfetti. Penso anche agli autori da lui messi in scena: a parte gli africani, Dostoevskij, Cechov, Beckett. Sono i classici moderni, i classici della modernità. A queste caratteristiche non si può non aggiungerne un' altra. Lasciano tutti una medesima impressione di ineffettualità. Lo spettatore, anche quello che ride (come nel caso di Fragments, cinque testi brevi di Beckett), difficilmente può superare la soglia dell' ammirazione. Si ammira Peter Brook per la sua precisione, per la sua eleganza, per il suo senso della misura. Ma poi? A questa obiezione si può opporre una sola contro-obiezione. I suoi spettacoli della vecchiaia sono esempi di concentrazione e di umiltà. Esprimono, sottaciuto, implicito, il desiderio di passare il testimone di una civiltà della traduzione: traduzione di una traccia scritta in una materia viva, in movimento, in stato di vibrazione permanente, ovvero di pericolo e di risposta al pericolo. In altri termini, Peter Brook non ha mai smesso di ricordarci che cosa veramente è il teatro. Il teatro è ciò che è, ma nello stesso tempo è ciò che diviene. Dicevo di Fragments, produzione delle Bouffes du Nord di Parigi e dello Young Vic Theatre di Londra. I tre fenomenali attori sono Jos Huben di nazionalità non dichiarata, Katryn Hunter, americana di New York, e Marcello Magni, nato a Bergamo e studente al Dams di Bologna (la presenza di Magni tra gli attori del regista inglese mi ricorda Vittorio Mezzogiorno, lo splendore che egli attinse come protagonista del Mahabharata). I 5 testi di Beckett sono, così sembra (questa è l' arte suprema di Peter Brook) tutta farina del sacco degli attori. Soli in scena, in una scena nuda: in essa, quella panchina o quella sedia o quei due sacchi gli attori se li portano dietro e da sé se li portano via quando cambia la storia che il duo autore-regista ci vuole raccontare-rappresentare. Nel primo pezzo, Frammento di teatro, due tipici personaggi beckettiani discutono animatamente su niente, ovvero sui massimi sistemi: «Fate la carità a un povero vecchio, fate la carità». È il pezzo più lungo, quasi venti minuti, impossibile non ridere quando i due mendicanti, ovvero i due buffoni, si abbandonano ai loro deliri. «Sono sempre stato così, accovacciato nel buio», dice uno. «Non sono abbastanza disgraziato. È sempre stata la mia disgrazia, disgraziato, ma non abbastanza», dice l' altro. Uno è cieco, l' altro è zoppo. Uno suona il violino, l' altro viaggia su una sedia a rotelle. Neither è un frammento inedito, tradotto da Maria Sestito (le altre traduzioni sono quelle della Pléiade-Einaudi). Impossibile riferirne, è un balbettio senile, un pianto a ciglio asciutto, sull' orlo della prossima risata. Ne è interprete la Hunter. La stessa Hunter è la solitaria interprete del pezzo più bello dei cinque, il lancinante, stupendo Dondolo. Anche in questo caso, come riassumere, che cosa dirne? Per Mel Gussov, uno dei maggiori interpreti dell' opera del drammaturgo irlandese, la protagonista di Dondolo «è una donna che si dondola dentro il ricordo. Il ricordo è vita e quando il fiume del subconscio si prosciuga gli occhi si chiudono, la sedia si ferma e la donna muore». Vi è, in questo poemetto, la stessa nostalgia, impossibile da confessare, de L' ultimo nastro di Krapp: oggi, un indimenticabile ricordo del Novecento.
Franco Cordelli
Peter Brook fu tra i primissimi a capire la grandezza di Beckett. Ora, per ricordare il maestro irlandese nel centenario della nascita, ha scelto il versante toccante dei Fragments che danno titolo alla serata. Ecco allora apparire sulla scena, nuda o quasi in un'ora di grande intensità, tre attori di squisita, definitiva precisione, in ordine alfabetico Jos Houben, Kathryn Hunter e Marcello Magni. Li vediamo passare dall'incontro di uno storpio e di un cieco che nel "Frammento per Teatro I" progettano, ma solo per brevi istanti, di riunire le loro disgrazie, alla lei del mirabile Dondolo che, su una sedia che qui manco dondola, ritma il suo addio alla vita, alle altre due vittime maschili che in "Atto senza parole II" sono provocate a turno da un pungolo a uscire dal loro sacco, compiere pochi gesti quotidiani e rientrarvi, al narrarsi di una donna in "Neither", a tre donne che volta a volta si riuniscono in coppia per confidarsi un segreto. Parole e gesti che si succedono e che riassumono impietosamente, senza vie d'uscita, il non senso di un passaggio vitale istantaneo e fungibile creato e montato con dei lampi indelebili da due geni.
Franco Quadri
Già la locandina sembra un manifesto della cultura del novecento: i Fragments di Samuel Beckett portati in scena da Peter Brook (oggi ultima replica al teatro Valle, dall'11 al 22 dicembre al Piccolo Teatro Studio di Milano). Ovvero i testi brevi e fulminanti del Nobel irlandese, istantanee asciutte e perfino scioccanti della condizione di un secolo e della sua umanità sperduta, fissati da chi Beckett ha avuto modo di conoscere (e frequentare la sua scrittura e il suo mondo) in un itinerario privato che li portò entrambi a passare dall'originario mondo anglosassone a quello francofono del rifugio parigino. Brook per altro questa volta non lavora con i suoi strepitosi attori covati al Cict delle Bouffes du Nord, ma con una compagnia che l'ha chiamato a dirigerla, ovvero l'inglese (a dispetto del nome francese) Théâtre de Complicité, una piccola istituzione dell'intelligenza scenica europea, dove lavora anche un italiano.
Tante commistioni etnoculturali danno luogo ad uno spettacolo asciutto e lapidario, secco e memorabile. Una versione di Beckett, o almeno dei suoi testi brevi, davvero «canonica» e destinata a diventare sicuro riferimento. Jos Houben, Kathryn Hunter e Marcello Magni, i tre attori di Complicité, hanno dato a Brook questa grande opportunità: lavorare su di loro (con l'aiuto delle due fidate assistenti di lui, per il corpo e per la parola, Lilo Baur e Marie Hélène Estienne) e lavorare su Beckett, a rendere ancora più carnale e concisa, evocativa e insieme assoluta la sua scrittura. Uno spettacolo realizzato lo scorso anno per il centenario beckettiano, e che si rivela ora il più bel festeggiamento, anche «didattico», di quell'occasione.
In quei testi brevi e brevissimi, Brook scava il piacere (anche il proprio) del teatro. La loro semplicità apodittica squarcia la complessità fasulla di tante sovrastrutture teatrali in cui spesso è più facile rifugiarsi. Una sorta di «grado zero» che invece ha tutta la densità dell'esistenza. Il pubblico ride, perché la forza comunicativa di quelle parole è ineluttabile, ma sono le stesse situazioni a gridare una condizione disperata da cui solo la parola può aiutare a uscire. A sorpassare il presente, a intravedere un futuro altrimenti impossibile.
Alcuni di questi Frammenti sono notissimi, quasi l'alfabeto di ogni declinazione beckettiana, come il fantastico Dondolo o Atto senza parole II; altri come Neither non sono stati finora tradotti in italiano (e debuttano per noi nei sopratitoli che traducono l'inglese originario). Brook tratta la semplicità di Beckett con lo stesso amore e la stessa cura dell'Amleto di Shakespeare, attento a scoprirne le pieghe o a tradurlo in un gesto illuminante. Con un gusto birichino a sorridere saggiamente, senza cadere mai nella banalità. Come i grandi comici alla Buster Keaton cui Beckett fu tanto legato. In una sequenza che non raggiunge l'ora di durata ma che sembra racchiudere l'intero alfabeto della scena, l'incontro di questi due grandissimi «vecchi» fa baluginare agli occhi del pubblico le immense possibilità, ancora presenti e future, dell'arte del teatro.
Gianfranco Capitta
di Beckett e Brook
Al Théâtre des Bouffes du Nord, la sua "tana" parigina, Peter Brook, il 5 ottobre 2006, consegnò Fragments al Festival che celebrava il centenario della nascita di Samuel Backett. In francese. Lo spettacolo ha poi cominciato a girare ed è approdato adesso a Roma, al Valle, dove replicherà fino a domenica prima di trasferirsi al Piccolo di Milano. Si tratta di Berceuse, Fragment de théâtre I, Acte sans paroles II e Ni l'un ni l'autre, qui tradotti in inglese per un cast che comprende Jos Houben, Kathryn Hunter, Marcello Magni. Luci Philippe Vialatte.
Cosa troviamo in palcoscenico? Efficacie e rarefazioni fatte apparentemente di nulla e per questo vicine allo scrittore irlandese e al regista inglese, uniti da una comune esigenza di essenzialità che sublima in tragico humour le disarmonie dell'esistere. Ecco allora le pareti invalicabili, reali e metaforiche; ecco le sciabolate di colore e gli ometti schiacciati dalle illusioni; ecco le finestre aperte sulla waste land, la terra desolata in cui Beckett e le sue figure aspettano Godot, o gli orizzonti di sola poesia dentro i quali il sonno è come la veglia, la comunicazione si fa impossibile, i gesti si ripetono ossessivamente, il riso si raggela nella coazione, ma non muore. Unica via possibile a una laica sopportazione della fine.
Rita Sala
Concepito in francese, per rendere omaggio a Samuel Beckett in occasione del centenario della nascita (1996-2006), Fragments è stato riallestito in inglese da Peter Brook e così rappresentato in prima nazionale al Teatro Valle di Roma. Una selezione di cinque brevi testi poco visitati del drammaturgo: Frammenti per il Teatro I, Dondolo, Atto senza parole II, Né-uno-né-l'altro, Va' e vieni. Ad interpretarli tre attori straordinari: il belga Jos Houben, l'americana di origine greca Kathryn Hunter, l'italiano Marcello Magni, insieme sul palcoscenico solo nell'ultima pièce.
Il primo "dramaticule", Teatro I, andato in scena per la prima volta nel maggio 1979, racconta l'incontro di un violinista cieco (Magni) che chiede l'elemosina con un uomo (Houben) monco di una gamba costretto sulla sedia a rotelle; due campioni di miseria a tratti talmente vicini da voler invecchiare insieme per poi violentemente respingersi vivendo in prima persona il dramma quotidiano dell'incomunicabilità.
Dondolo, scritto nel 1980, scolpisce la solitudine di una donna seduta davanti ad una immaginaria finestra in un monologo tragicomico che potrebbe rischiare di essere una babele di suoni ripetitivi, smarrita tra sfocalizzazioni e allucinazioni. L'intuizione del regista è quella di aver eliminato i movimenti ondulatori della sedia ed aver lasciato alle parole della Hunter il compito di imitarne il dondolio con l'incanto di una voce spersonalizzata.
Terzo frammento della serata è Atto senza parole II, proposto per la prima volta in Italia nel 1965. In scena due grossi sacchi bianchi, due contenitori di vite umane. Assistiamo al risveglio del primo uomo che tenta di compiere le normali azioni del mattino come lavarsi, vestirsi, mangiare. Tutto gli va storto facendolo sprofondare nella sua crescente afasia. Ma ecco il risveglio del secondo uomo. Compie gli stessi gesti quotidiani, ed affronta invece la sua giornata con entusiasmo, malgrado le avversità. Non servono parole per evidenziare il differente approccio tra due contrastanti filosofie di vita.
In Né-uno-né-l'altro, ancora insieme alla Hunter, è la luce protagonista a ritagliare e disegnare porte, ipotetiche vie di fuga che svaniscono nel buio non appena si tenta di imboccarle: evidente metafora della vita.
Chiude la serata Va' e vieni, una danza immobile di tre donne dall'età indefinibile, sedute su una panchina a ricordare i tempi che furono. A turno si allontanano lasciando le compagne che, rimaste sole, bisbigliano all'orecchio del male incurabile di cui la loro amica è ignara. Alla fine, in un intreccio di braccia, si stringeranno le mani finché il silenzio non viene rotto dalla voce di una di loro: "Sento gli anelli", quasi a voler convincere le altre, per poi credere, lei stessa, ad una presunta felicità coniugale.
Nella loro prosciugata essenzialità, ogni dramaticule è un'opera a sé, con immagini e suoni peculiari. Ciononostante Brook fa fluire sulla scena i cinque testi senza soluzione di continuità, come fossero atti di un unico spettacolo di estremo nitore ed intensità emotiva.
Sbarazzatosi del superfluo, lo spazio scenico per Brook è una pagina immacolata su cui i suoi attori disegnano l'essenza stessa dei personaggi senza forzarne la natura. L'incontro-scontro tra il drammaturgo e il regista ci consente di scoprire ed afferrare la vitalità celata in quei corpi sofferenti, regalando però un filo di speranza, che si svela nell'universalità dei personaggi, attraverso l'umanità che li compenetra, pur nella loro condizione estrema.
Cosimo Manicone