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GIARDINO DEI CILIEGI (IL) - regia Nicola Borghesi

"Il giardino dei ciliegi", regia Nicola Borghesi. Foto Luca Del Pia "Il giardino dei ciliegi", regia Nicola Borghesi. Foto Luca Del Pia

Trent’anni di felicità in comodato d’uso 
ideazione e drammaturgia Kepler-452 (Aiello, Baraldi, Borghesi)
regia di Nicola Borghesi
con Annalisa e Giuliano Bianchi, Tamara Balducci, Nicola Borghesi e Lodovico Guenzi
regista assistente Enrico Baraldi
assistente alla regia Michela Buscema
suoni di Alberto ‘Bebo’ Guidetti
scene e costumi di Letizia Calori
video Chiara Caliò
produzione Emilia Romagna Teatro
visto al teatro Ponchielli, Cremona, 29 gennaio 2020

www.Sipario.it, 30 gennaio 2020

La storia di un incontro domina e pervade Il Giardino dei ciliegi di Kepler 452. La felice intuizione registica e drammaturgica di Nicola Borghesi costituisce il motivo di interesse di questo Giardino dei ciliegi bolognese, in cui la Russia si sposa con l’Emilia Romagna, in cui i villini per borghesi vacanzieri in ascesa si specchiano nel salone Fico, alle porte di Bologna. Giuliano e Annalisa Bianchi sono Ljuba e Gaev, hanno dovuto lasciare dopo trent’anni la loro casa data dal Comune in comodato gratuito per lasciar spazio a Fico, il grande salone enogastronomico alle porte di Bologna. Giuliano e Annalisa sono come i due aristocratici cechoviani costretti a mettere all’asta il loro giardino dei ciliegi per far fronte ai debiti. Il parallelismo sta in questo ‘essere obbligati a lasciare un luogo dell’anima’. 
Giuliano e Annalisa lasciano la loro casa piena di piccioni, animali, una sorta di comune in cui vige la regola dell’anarchia e del vivere ai minimi termini per molto sentire e amare. Ciò accade per fare spazio al salone Fico che fa della rappresentazione della natura, dell’omologazione il distillato del bisogno borghese di sognare un paradiso raggiungibile, laddove la vita di Giuliano e Annalisa era arca di Noè di un’umanità autentica in via d’estinzione. Ljuba e Gaev sono – parallelamente - due aristocratici che vivono al di là della realtà, forse ancorati ad un antico e anacronistico prestigio che è inficiato dall’ex servo arricchito Lopachin che acquisterà la tenuta.
Nicola Borghesi sceglie per sé il ruolo di regista interno all’azione, raccorda i tempi e le anime del Giardino cechoviano con la presenza vera di Annalisa e Giuliano. In scena i mobili della casa di Giuliano e Annalisa, nessuna tentazione di simulare una realtà, ma piuttosto oggetti di realtà, soggetti di vita chiamati a interagire col testo cechoviano. In questo Borghesi sceglie di spiegare, dirigere, glossare e affida a Lodo Guenzi il ruolo di Lopachin, anzi fa di più: concentra tutto il testo in Lopachin ingaggiando un corpo a corpo fra Ljub/Annalisa e Gaev/Giuliano, mentre Tamara Balducci condivide con Borghesi una sorta di ruolo a supporto al testo cechoviano. L’effetto è quello di un continuo ribalzo fra i due poli e questo rimbalzo polarizza anche la riscrittura cechoviana, cancellando personaggi importanti come lo studente Trofimov, la figlia adottiva di Ljuba, Varja, il maggiordomo Firs, solo per citarne alcuni. Ma ciò è in sintonia con l’idea stessa di portare in scena la verità corporea di Giuliano e Annalisa che Borghesi e Guenzi gestiscono in scena, che guidano e a tratti riportano nei tracciati di una meccanismo subito disvelato e che vive di incostanti, ondivaghi momenti poetici e pesanti cali di tensione. Bella, bellissima la scena della festa, una festa che stringe lo stomaco, un dolente carnevale che sa di inesorabile decadenza così come il Lopachin di Guenzi esulta per l’acquisto del giardino, ma con sofferta soddisfazione, lenita dalla musica e dall’alcool. L’aver raggiunto quell’obiettivo vuol dire porre fine alla poesia, apre la prospettiva verso un nuovo che angoscia e rende incandescente la ferita di un passato tranciato. 
La verità di Annalisa e Giuliano commuove, nella sua naivetè prende il cuore, ma al tempo stesso lo spettacolo funziona di più quando l’alchimia fra essere e l’essere in scena si compie, quando il testo di Cechov emerge nella sua poesia e la drammaturgia di Borghesi/Aiello/Baraldi sa mettersi al suo servizio. È allora, è nelle sfumature che emerge Cechov e con esso la disperante pochezza di una borghesia che nell’accumulo, nel mostrare e di-mostrare di sé e del suo successo/potere non può che finire con l’accontentarsi della finzione di Fico. In tutto questo Annalisa e Giuliano nel loro tenero abbraccio finale sono il dolente addio a un’autenticità che paradossalmente trova casa in teatro, luogo della finzione e spazio di verità. 

Nicola Arrigoni 

Ultima modifica il Venerdì, 31 Gennaio 2020 12:08

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