di: Anton Čechov
traduzione: Fausto Malcovati
con: Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
regia: Leonardo Lidi
scene e luci: Nicolas Bovey
costumi: Aurora Damanti
suono: Franco Visioli
assistente alla regia: Alba Porto
Teatro Stabile dell’Umbria - Teatro Stabile di Torino – Spoleto Festival dei Due Mondi
Visto a Monza, al Teatro Manzoni, il 13 dicembre 2024
Grandi interpreti per lo spettacolo di Leonardo Lidi “Il giardino dei ciliegi” Tutto uguale eppure diverso. Il fratello Gaiev diviene una sorella, Orietta Notari. La festa è un guazzabuglio confuso anni ’80. I costumi un insieme raffazzonato, come presi a caso da bauli di famiglia di qualche decennio prima. Lopachin (Mario Pirrello), che alla fine, lui figlio di servi, “contadinello”, comprerà casa e podere, compreso il famoso giardino del titolo, canta “Ritornerai” di Bruno Lauzi mentre aspetta il ritorno di Ljubov' Andreevna/ Ljuba (Francesca Mazza). E se parlando tra loro le due sorelle, Anya (Giuliana Vigogna), che era stata in viaggio con la madre, cinque anni di assenza, e Varja, figlia adottiva (Ilaria Falini), che era stata lì cercando di fare economia, consapevole delle gravi difficoltà economiche, hanno nel testo il riferimento a una spilla a forma di ape, ecco che intanto Anya va indossando un pagliaccetto per la notte a strisce gialle e nere. E il personaggio di Carlotta, la governante, è interpretato da un attore, Maurizio Cardillo. E così via. Ma l’opera è proprio quella di Cechov, e malgrado questi sconvolgimenti - e altri ancora - restano, nella regia di Leonardo Lidi, tutti i meccanismi delle relazioni intrecciate del testo originario, così come il senso profondo, dolente, della fine di un tempo durante il quale si consuma una nostalgia che non aiuta a vivere. Così Leonardo Lidi, che si segue da tempo con ammirazione, con la gioia di vedere confermato presto il suo valore, così da poter produrre - realizzare i suoi spettacoli, e a gran ritmo - senza problemi. Bene! E questo, “il giardino”, terzo della trilogia cechoviana, poi ospitata al Piccolo di Milano, ha debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Una meraviglia vedere tanti attori in scena - e tutti bravissimi, in autonomia e costruendo precisi, accurati, rapporti, gli uni con gli altri, assai cechovianamente - e con un regista che non sembra mai affidarsi alla semplice rappresentazione, amando piuttosto, e assai coraggiosamente, l’interpretazione in letture anche molto ardite. Come con questo “Giardino dei ciliegi”, che sembra, anche in modo divertito, dialogare a distanza, con la messa in scena strehleriana. Nulla più di quella soave lentezza nel recitare le battute, quell’elegante diffuso biancore, l’aristocrazia garbata nei gesti, nei modi, già residuo di un mondo che va disfacendosi, ma colori disordinati - e una grande velocità recitativa, senza alcun intervallo: la Storia, che non è neppure quella di allora ma vicina a noi, corre spedita, incalzante, verso la disgregazione del tutto. Verso dove? Si è detto che questa perdita del giardino con la dispersione di chi là viveva possa essere letta, con Lidi, simbolicamente, come lo smarrimento del mondo del teatro, una sorta di decomposizione, sbriciolamento, rinuncia del mondo della scena. Forse, anche. Meglio non creare metafore così chiaramente sovrapponibili, oltre a tutto in evidente contraddizione con l’evento in sé, così pieno di ritmo, di vitalità. Certo la figura di Firs (Tino Rossi) il vecchio servitore in carrozzina, che ricordava con rimpianto non solo le molte ricette che si facevano con le ciliegie del giardino, ma anche i tempi della servitù della gleba (la liberazione considerata una sciagura e lui aveva preferito restare lì, nella famiglia a cui era appartenuto) sembra evocare, così dimenticato nella casa da cui tutti se ne erano andati via, con quel fazzoletto sul volto a mo’ di sipario, un’immagine di teatro senza speranza, proprio una fine. O è una lettura eccessivamente definita? Meglio forse tornare, insieme, ai legami tra i personaggi e a questo tempo nostro, così sembra, che, perdute le certezze di una volta - l’assenza di guerre, un benessere infinito, godendo, spendendo senza pensare al domani - si ritrova spaesato, come in attesa: verso la catastrofe? Così sembra in quella festa durante la quale una stupida frenesia “vecchio stile” s’intreccia a un’ansia crescente per la fine che avrebbe fatto il giardino, il destino di tutti loro. Ljuba aveva continuato a non voler vedere, capire, sperperava soldi con signorile superiorità, l’amore, solo immaginato (l’uomo, a cui pensava di tornare, l’aveva derubata), diviene fino all’ultimo strumento per guardare altrove. Perché ciascuno reagisce diversamente al mondo che cambia. E Trofimov (Christian La Rosa), l’eterno studente, che sembra sognare un mondo diverso, deriso da Lopachin come nullafacente, sa ben leggere la situazione in termine sociologici, rifiutando infine quei soldi offerti dal nuovo padrone - in fondo sempre a disagio, sentendosi ancora il contadino di un tempo, legato a Ljuba, a quella casa - dicendo che non ne aveva bisogno, gli avevano appena pagato una traduzione… La giovane Anja sarebbe andata via con Trofimov? Certo se ne sente attratta - e lui da lei, anche se, mettendo in primo piano altre prospettive, più ideologiche, si sente al sopra dell’amore. Nessuno può comunque vivere ancora nell’inerzia di sempre. E’ necessario fare delle scelte. Restando nell’aria un sentimento diffuso d’incertezza, delusione. Dunja (Angela Malfitano) crede di aver assorbito i modi dei signori, curate le sue mani, ma finisce per innamorarsi del servitore Jasa (Alfonso De Vreese), dai modi bruschi, volgari, che mostra qualche sapere avendo viaggiato in Francia con Ljuba. Più volte Epichodov (Massimiliano Speziani), con una speciale carica anche fisica malgrado sia notoriamente sfortunato, ha più volte dichiarato il suo amore per Dunja: invano. E Piscik (Giordano Agrusta), che ha sempre bisogno di denaro, alla fine sembra che abbia fatto bene a credere nella sorte: dopo il passaggio, ben remunerato, del treno sulle sue terre, ecco la scoperta di un’argilla speciale. Ognuno pare che sia quasi in ascolto solo di se stesso, ma in realtà creando molteplici incroci, azioni e reazioni, con gli altri intorno. Di particolare commozione il saluto tra Liubimov e Varja: tutti si aspettano che si uniscano, che si sposino - ed entrambi sembra che desiderino proprio questo. Ma tra turbamenti, imbarazzi, timidezze, finiscono per salutarsi, in qualche modo distanti, separati forse proprio da quel giardino che ormai appartiene a lui, che quasi non crede a quella verità: lui aveva cercato in tanti modi di spiegare come avrebbero potuto, Ljuba e suo fratello/ sorella, salvare la proprietà, bisognava tagliare gli alberi, costruire delle villette… L’avrebbe fatto lui, comunque inquieto, infelice… Ecco sì, vero: uno spettacolo fedele al testo e diversissimo, con elementi farseschi, come del resto avrebbe voluto Cechov, che si era trovato spesso in disaccordo con Stanislavskij, che indagava su umori e stati d’animo rendendo facilmente dramma quanto era solo commedia. E alla fine non sembra che sia il teatro - con uno spettacolo di tale forza e originalità con degli interpreti di questo livello, davvero strepitoso - ad andare verso la disgregazione, lo sfacelo. Forse accade prima a questo misero mondo pieno di residui di quella plastica, creazione invadente dell’uomo, di cui si compone la scenografia, magari con l’illusione che forse il giardino, la bellezza, possa resistere. Questo mentre si sente il rumore degli alberi abbattuti - e ogni uomo, come First, resta solo, dimenticato, in attesa della morte. Valeria Ottolenghi
In un mondo alla deriva forse non è il teatro che va disgregandosi