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GRANDE INQUISITORE (IL) - regia Peter Brook

Il grande inquisitore Il grande inquisitore Regia Peter Brook

(The great inquisitor)
da “I Fratelli Karamazov” di F. Dostoevskij
Regia di Peter Brook
Adattamento di Marie Hélène Estienne
Disegno luci di Philippe Vialatte
Interpreti: Bruce Zuber, Joaquim Zuber
Prod. Theatre des Bouffes du Nord.
Alla Sala “A. Musco” 4 / 7 gennaio 2008 Stabile di Catania (in tournée europea)

www.Sipario.it, 1 aprile 2008

Un monologo “semplice”, incalzante, di micidiale nitore requisitorio, di dubitativa (oltranzistica) esternazione dialettica sul “ruolo” che occupa, o dovrebbe occupare, la figura di Cristo rispetto alle macerie della Storia, alle sue iniquità, stoltezze, accumulo di dolore sulle fragili spalle dei “vinti”, dei “dannati della terra”: di quegli ultimi, e poveri di spirito, che il Nazareno consolò promettendo loro quel “regno dei cieli” cui si accede per dono di fede e non per istanza tribunizia.

“Il grande inquisitore”, ansa implacabile e religiosamente “oltraggiosa” del torrenziale romanzo “I fratelli Karamazov” (spericolatamente, magistralmente portato in scena, anni fa, da Luca Ronconi) narra di un ipotetico, misterioso ritorno del Cristo sulla terra – a Siviglia – all’epoca della Santa Inquisizione. Per testimoniare con la sua muta presenza, le spalle al pubblico, la “necessità” teologica di un silenzio che “dovrà protrarsi” sino alla fine dei tempi, pena la banalizzazione “immanente” di una regalità spirituale che non è di questo mondo. E che – elemento basilare- non impone a nessuno acquiescenza o “estorsione di credo”. Ma sul cui letto di Procuste andrà vivisezionato – aggiungiamo noi laici – il postulato, la speciosità del potere (politico-imperiale) della Chiesa di Roma.

Nella parabola del turbinoso scrittore russo, Cristo verrà “condannato” per la seconda volta, reo di non avere seminato nell’uomo il bacillo del libero arbitrio e della libertà di coscienza. Rischiando così di ampliare il dibattito (almeno per i posteri) su alcuni dogmi della cultura protestante (il concetto di grazia, di purificazione) che non appartengono al pensiero di Dostoevskij: e nemmeno del suo illustre esegeta, Peter Brook.

Il tranello ideologico della rappresentazione – a suo modo lapidaria, inconfutabile, stentorea come in un concreto dibattimento – consiste proprio in quel rovello o dualismo (accettare o meno la trascendenza dell’ipotetico figlio di Dio) in cui il pensiero dello spettatore-medio potrebbe facilmente naufragare, sciupando – per così dire – il gusto iperbolico, provocatorio, monumentale di cui ama nutrirsi la parola-teatrale: a dispetto di ogni possibile risoluzione “hic et nunc” di un rovello che non ha razionale soluzione.

Consentendo così a Peter Brook, nell’ambito di un arredamento scenico da opera in nero, di dare scabro ornamento ad una diatriba millenaria; ovvero “esaurire” ogni speculazione sul tema mediante la nuda alternativa del teatro di parola (robusta, esemplare l’energia sonora di Bruce Myers, il protagonista), che qui è possente ma allo stesso tempo privo di armi prevaricatrici.

Alla fine, con un bacio sfuggente alla guancia del suo avversario, Cristo – imperturbabile, impermeabile ad ogni umana imputazione – accennerà ad un secondo perdono e, sempre di spalle, uscirà com’è giusto di scena. Leggendario ostaggio di una coerenza che non ammette repliche, diatribe, dimostrazioni di onnipotenza.

È il massimo che il teatro può offrire, non essendo tempio di dogmi e certezze.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Sabato, 21 Settembre 2013 08:05

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