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LA LOCANDIERA - regia Antonio Latella

“La Locandiera”, regia Antonio Latella. Foto Gianluca Pantaleo “La Locandiera”, regia Antonio Latella. Foto Gianluca Pantaleo

di Carlo Goldoni
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Annibale Pavone, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo
dramaturg Linda Dalisi scene Annelisa Zaccheria costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli luci Simone De Angelis
assistente alla regia Marco Corsucci assistente alla regia
volontario Giammarco Pignatiello Teatro Stabile dell’Umbria
teatro Sociale, Mantova, 26 novembre 2024

www.Sipario.it, 13 dicembre 2024

È lì, nella conversazione a tavolino fra il Marchese di Forlipopoli (Giovani Franzoni) in maglione norvegese con il Conte di Alba Fiorita (Francesco Manetti) con berrettino da baseball che c’è il teatro vero, che c’è Goldoni. È nell’ingresso del Cavaliere di Ripafratta, Ludovico Fededegni in loden verdone con spalline che ci sono una potenza e naturalezza studiatissima che tolgono il respiro. È nel muoversi nervoso, nel controllatissimo femminino di Sonia Bergamasco, Mirandolina che c’è la forza rivoluzionaria della Locandiera di Carlo Goldoni che Antonio Latella legge con grande, potente, tesissima poesia, affidandola a un quotidiano senza tempo, a un realismo non di maniera, a una verità dello stare in scena che regalano un’atmosfera sospesa, come quella che si avverte nell’imminenza dello scoppio di un temporale. Quel temporale è forse un mondo che cambia, è la presa di potere della borghesia ai danni di un’aristocrazia decaduta e che ha come unico mezzo di distinzione lo sperpero delle proprie ricchezze. E che dire di Fabrizio di Annibale Pavone che osserva da fuori, lui l’erede dell’impresa, colui che deve stare a badare alla locanda, prima che alla locandiera che guarda in disparte. In questo guardare in disparte, pare di individuare un omaggio affettuoso e discreto alla grande lezione di Massimo Castri nella messinscena dei suoi Goldoni in cui impercettibilmente i servi osservano, in silenzio il disfacimento del mondo dei loro padroni. Assistere a La locandiera di Latella/Goldoni è riscoprire il capolavoro dell’avvocato veneziano e viverlo con una tensione cechoviana, in cui tutto accade in un apparente nulla, in un clima teso in cui le relazioni e i dialoghi sono segnali intermittenti di un sisma emotivo. Come in Chi ha paura di Virginia Woolf? c’era il tavolino degli alcolici a fare da fuoco spaziale all’azione, qui è la cucina a fare da punto focale all’ellissi dei movimenti di Mirandolina e Fabrizio e fa un certo effetto sentire il profumo di soffritto, lo sfrigolare le cipolle, nella preparazione dell’intingolo che Mirandolina cucina per sedurre e portare a sé il cavaliere. È un gioco a chi resiste, è una sfida quella fra la locandiera e il cavaliere misogino che i due attori e il regista sanno condurre con spietata precisione mimica, attoriale e tonale. E si ha l’impressione che la commedia rischi di scivolare in dramma. La scena del ferro da stiro è il punto di svolta che consegna la pièce al dramma borghese e che anticipa – forse – la voglia di indipendenza di Nora di Casa di Bambola, ma qui siamo nella commedia del XVIII secolo e la chiusura del cerchio è affidata al compimento della volontà paterna. Ma il loden nascosto del cavaliere indossato prima e poi nascosto in cucina da Mirandolina dice molto dell’amore, del desiderio e delle convenzioni. In questo tentativo di analisi che si infrange sulla parete lignea della scena che divide un qui e un altrove, che racconta di un’eleganza sobria ad avere il sopravvento è comunque il piacere e la sensazione di aver assistito a uno dei migliori Goldoni di sempre, di avere avuto la conferma che Antonio Latella e il suo teatro oggi sono un classico, sono la capacità di leggere i testi, di confrontarsi con la grande drammaturgia con una lettura critica e poetica propria della grande tradizione registica italiana. E allora  Antonio Latella non poteva fare miglior omaggio alla memoria e al magistero di Massimo Castri, erede di una capacità di lettura e di analisi rare e per questo preziose. Commossi applausi a un lavoro che profuma di capolavoro e che si vorrebbe vedere e rivedere mille e mille volte. 

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Lunedì, 16 Dicembre 2024 22:04

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