di Tennessee Wiliams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna,
Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti, suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto
Una produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale,
Napoli, Teatro Mercadante dal 13 al 18 mag 2025
La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee
Una scena spoglia, uno specchio e tre attori in scena. Così comincia “La gatta sul tetto che scotta” di Tennessee Williams con la regia di Leonardo Lidi nell’adattamento di Monica Caponi. Lidi, nelle note di regia, ha specificato di aver voluto mettere in scena l’aspetto più crudo e veritiero dell’opera - lo stesso scrittore statunitense, infatti, “decise di riscriverlo in una versione incontrastabile, una versione cruda, piena di volgarità e accuse, per dipingere il ridicolo “presepe vivente” che lo feriva tanto”. E lo ha fatto. Partendo proprio dallo spazio scenico concepito per riflettere lo stato interiore dei personaggi e le tensioni latenti che li circondano. Si tratta di uno spazio spoglio, ma molto illuminato, con pochi oggetti significativi, capaci di suggerire, più che definire un luogo preciso, in questo caso la camera da letto di Maggie e Brick. La storia ruota intorno all’ipocrisia e alla difficoltà di affrontare la realtà che va messa da parte e camuffata a tutti i costi. Racconta la storia della famiglia Pollitt, una ricca famiglia del Sud degli Stati Uniti che vive una profonda crisi di fronte all’imminente morte del padre, Big Daddy, poi da sfondo ci sono i dissapori familiari e le problematiche dei personaggi. Brick, il figlio prediletto, è tormentato dal suo passato e si rifugia nell'alcol come meccanismo di difesa per affrontare un dolore interiore e un senso di colpa non risolti. La moglie lo ama anche se non ricambiata ma, nonostante il rifiuto continuo del coniuge, non solo sessuale, gli spiega che rimarrà sempre accanto a lui pur di non scendere di nuovo la sua scala sociale. Così come il fratello, appresa la malattia terminale del padre, cerca di prendere in mano le redini degli affari familiari in un crescendo di incomunicabilità e incertezze mai realmente affrontate. Tra le scelte peculiari della regia da segnalare la presenza di un attore che rappresenta la personificazione della dipendenza: entra in scena solo per portare la bottiglia a Brick e per marcare emozioni e sentimenti del protagonista. E ancora la presenza di uno specchio che riflette non solo l’immagine ma anche i sentimenti dei protagonisti, e talvolta li bracca. Lo spettacolo, infatti, va interpretato da un punto di vista interno: è vero che in scena di svolge un’azione, ma bisogna vederla su due canali. Ciò a cui si assiste, dunque, è allo stesso tempo sia la recitazione degli attori nelle loro parti, sia la rappresentazione contemporanea dei loro interiori sentimenti, delle loro frustrazioni, dei loro fallimenti e delle loro paure. Altrimenti non si spiegherebbe la scelta di una recitazione gridata, in un climax che tende ad aumentare la portata delle parole e dei sentimenti sino ad arrivare in alcuni tratti ad essere disturbante addirittura. Quindi, in qualche modo obiettivo centrato. Buona la prova attoriale dei protagonisti, forse Big Daddy un po’ troppo milanese (ad un certo punto ci si aspettava dicesse “taaac”) e coraggiosa la scelta sperimentale del regista che ha voluto omaggiare il drammaturgo americano nella sua autenticità. Simona Buonaura