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LE NUVOLE DI AMLETO - regia Eugenio Barba

"Le nuvole di Amleto", regia Eugenio Barba. Foto Francesco Galli "Le nuvole di Amleto", regia Eugenio Barba. Foto Francesco Galli

di ODIN TEATRET
Dedicato a Hamnet e ai giovani senza futuro
Attori: Antonia Cioază, Else Marie Laukvik, Jakob Nielsen, Rina Skeel, Ulrik Skeel, Julia Varley
Disegno luci, Disegno luci, video e manifesto: Stefano Di Buduo
Consulente film: Claudio Coloberti
Marionetta: Fabio Butera
Costumi: Odin Teatret
Spazio scenico: Odin Teatret
Direttore tecnico: Knud Erik Knudsen
Assistenti alla regia: Gregorio Amicuzi e Julia Varley
Testo: Eugenio Barba e citazioni dall’Amleto di William Shakespeare
Drammaturgia e regia: Eugenio Barba
Teatro Menotti, Milano, 11 maggio 2025

www.Sipario.it, 24 maggio 2025

Sull’assonanza tra Hamnet, il figlio di Shakespeare morto bambino, e Hamlet, principe di Danimarca, e sulla cronologia della tragedia omonima composta durante il lutto per la morte del padre, che introduce il tema di come un’eredità etica, spirituale, possa essere trasmessa tra generazioni; ma principalmente con l’immagine guida delle nuvole a fare da catalizzatore, si rapprende il grumo ad alta densità immaginifica da cui si dipana-irradia il nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. 

C’è un padre che chiede vendetta, una vendetta che Amleto fatica a compiere, e allora la domanda è, come emerge dalle note di Barba nel libretto di sala: invece di un’eredità di violenza (nel gorgo dell’odio che genera odio; Maelstrom in cui pare immedicabilmente calata a nostra epoca di tramonto del tramonto), si può trasmettere un’eredità d’amore, come succede ad Antigone? Siamo così legati al debito di sangue da non vedere più il filo che ci lega a una trascendenza dall’umano? Ma quale amore? 

Un tipo di amore è ben delineato nei casi a contrasto delle due coppie antagoniste: Claudio-Gertrude (Ulrik e Rina Skeel) e Amleto-Ofelia (Antonia Cioaza, Jakob Nielsen). I primi due si concupiscono di continuo in scene cariche di una violenza sensuale gestite come una danza macabra, grottesca; la seconda coppia gioca con l’amore sul filo di due violini che intrecciano labili danze di libellule.

Ma una risposta arriva, anche se tragicamente provocatoria, in una sequenza di immagini che viene proiettata sui due lati opposti della scena a seguito della battuta di Shakespeare (Julia Varley): “Amleto è pazzo/ il mondo è pazzo”: padri stretti in abbraccio ai loro bambini che imbracciano fucili da guerra, e sfoggiano perfette baby tenute militari. E’ questa l’eredità? L’amore paterno che si fa catena di trasmissione dell’odio tra popoli? 

Come sempre gli spettacoli dell’Odin sollevano domande, più che fornire risposte, domande che vengono forgiate come amuleti dalla fucina di un Vulcano della poiesis, in un fuoco di immagini che brucia sull’impermanenza dei corpi e delle voci degli attori.

Specie nella struttura “a fiume”, con la scena posta tra due sponde di spettatori, uno spettacolo dell’Odin è sempre l’esperienza di come un’orchestrazione complessa di azioni e canti e parole tessute dagli attori nello spazio cominci ad agire, nella mente dello spettatore, irradiando immagini. Non si vedono più soltanto i viluppi, le condensazioni e rarefazioni, i punti di acme e di calma; non è solo l’abilità registica di lavorare chirurgicamente con l’attenzione dello spettatore, è la capacità alchemica di rendere immediatamente evocativo tutto questo impasto, una sostanza viva che lavora sulla parte vulnerabile dello spettatore, ne attiva la memoria e la fa fiorire in catene di analogie. 

Gli elementi del dramma qui sono come frammentati e distribuiti secondo una logica “altra”, prendono una vita alla seconda potenza, obliquamente eloquenti, in un gioco di straniamento del noto che si apre a significati ulteriori. 

Il pezzo sull’attore detto evidenziando un pugnale, che trincia l’aria come non dovrebbero mai fare le mani degli attori nel gestire (quello dell’attore come un disarmato mestiere all’arma bianca?). 

Il fantasma del Padre (Else-Marie Laukvik) ondeggiante sul confine del pianto rituale e della angoscia infera. 
Alla fine gli occhi della testa di statua classica proiettata sui due schermi alle estremità dello spazio-fiume, ciechi, si illumineranno di un cielo azzurro pieno di nuvole. 

Lo spettacolo si trasforma come una nuvola nel corso della sua esecuzione, in ogni momento è esattamente quello che vede lo spettatore, cioè il fluire della non stabilità; la condizione del riconoscimento è sottoposta alla legge della trasformazione; ma lo scambio sulle nuvole tra Polonio e Amleto (Atto III, 2), inglobato da S.-Varley (quello che Amleto vede, anche Polonio dice di vedere), diventa segno della condizione di verità di un mondo su cui “l’inferno soffia il suo contagio”.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Sabato, 24 Maggio 2025 09:27

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