Teatro delle Bambole
Dal racconto di F. M. Dostoevskij
Canto della scena: Federico Gobbi
Canto delle vesti: Silvia Cramarossa
Canto delle dinamiche di palco: Sebastiano Pirillo
Canto delle videovisioni: Zerottanta Produzioni
Canto delle relazioni: Fabio Zerbinati
Canto della documentazione: Maria Panza
Canto dell’adattamento del testo, allestimento e regia: Andrea Cramarossa
Visto al Teatro Linguaggicreativi, Milano, sabato 18 febbraio 2023
La mite del Teatro delle Bambole, ovvero dell’autonomia del testo scenico da quello letterario. Sembra sempre sia acquisito il senso di questa ovvia indipendenza di uno dall’altro, eppure si può constatare come la trasposizione non lineare di un’opera letteraria in teatro lasci ancora tracce di perplessità in alcuni spettatori; segno che il lavoro da fare, nei livelli di connessione della rete sociale al teatro (attraverso la scuola ad esempio) è ancora molto e necessario. In questo senso andrebbe inquadrato, e valorizzato, il lavoro dei piccoli teatri che occupano linee di faglia nella geologia culturale delle città e dei territori.
Il racconto di Dostoevskij, nella versione del regista e drammaturgo Andrea Cramarossa, rimane esposto dal punto di vista di un unico personaggio, il protagonista maschile della narrazione. La sua ricostruzione, disperata e delirante, della vicenda che vede il personaggio femminile del racconto diventare da trovatella frequentatrice del banco dei pegni di proprietà dell’uomo a sposa dello stesso, per poi vedersi imprigionata in un rapporto di sudditanza violento e possessivo che la conduce infine al suicidio, è resa dall’attore Federico Gobbi fin dall’inizio con una modalità espressiva fisicamente parossistica, condotta sul limite di una tensione sussultoria che pervade ogni movimento. E’ nel tronco e negli arti superiori che si attua questa mobilitazione psico-muscolare; è nello spasmo fisico prolungato la cifra espressiva del personaggio delineato da Gobbi. Il quale non si fa certo condurre sul terreno vieto di una convulsività disorganizzata, anarcoide per posa d’artista, ma, al contrario, ne ingabbia la virulenza e violenza nella rete di una partitura fisica tanto minimale nei suoi elementi fondamentali quanto orchestrale negli effetti. Si potrebbe dire che è il gesto dell’intimazione (il dito indice puntato, a indicare severità, dominio, comando ecc.), a venir prescelto come chiave gestuale di fondamento. Figurazione riportata su entrambi i pugni e intervallata da almeno un’altra figura, se non da una terza: una specie di inchino a testa in avanti e braccia aperte. Ecco dunque manifestato il principio compositivo che un certo teatro di ricerca ha sempre utilizzato e teorizzato: il gesto dell’attore in scena non come ripetizione naturalistica del gestire quotidiano, per quanto amplificato (quanti attori anche giovani si vedono, ancora, durante intere scene, tenere le mani in tasca in ordine a questa non dichiarata ideologia?), ma come risultanza del montaggio alternato di una sequenza di gesti distillata nel processo creativo. Sequenza che diventa partitura nel momento in cui viene consegnata alla varietà delle intensità energetiche e ritmiche dell’esecuzione. I segnali di un’aderenza del personaggio all’epoca e agli abiti e oggetti cui il racconto fa riferimento sono resi allusivamente da un repertorio di elementi che richiama il mondo dei giocattoli: il cavallo è una sagoma di testa montata su un bastone; lo spadino di plastica; il cappello militare di carta bianca.
Il desiderio, dallo spettacolo evidentemente frustrato, di veder svolta puntualmente in scena l’originaria progressione narrativa del racconto (forse rinforzato negli ultimi decenni da tanto, forse troppo, teatro di narrazione) è emerso poi in qualche intervento durante l’incontro finale tra compagnia e spettatori moderato da Fausto Malcovati (pur nel generale, e anzi, per la verità, entusiasta, apprezzamento del lavoro da parte del pubblico).
Stupisce, dopo un cinquantennio di esiti della ricerca teatrale internazionale, sentire periodicamente riemergere questo desiderio, che ci sembra il portato di una subconscia ideologia del naturalismo a teatro.
Franco Acquaviva