regia di Alice Sinigaglia
di Diego Pleuteri
con Valentina Picello e Vito Vicino
sound designer Federica Furlani
scenografo Alessandro Ratti
luci Luca Scotton
La Corte Ospitale coproduzione Gli Scarti ETS con il contributo della Regione Emilia Romagna e con il sostegno del MIC e di SIAE
Sala Pasolini del Teatro Gobetti, Torino, sabato 22 febbraio 2025
Un’anonima cucina, di un ancor più anonimo interno, disseminata di scatoloni e lampade con sul fondo due leggii, qua e là qualche microfono, una poltrona, un tavolo e due sedie per un generale senso di disordine: un pomeriggio piovoso, in scena una madre e un figlio. Quella che potrebbe essere la classica didascalia d’ambiente è in realtà l’immagine visiva offerta allo spettatore di Madri, testo di Diego Pleuteri, firma tra le più interessanti della nuova drammaturgia, portato in scena con l’attenta regia di Alice Sinigaglia e l’intensa interpretazione di Valentina Picello e Vito Vicino: l’inaspettato arrivo del figlio interrompe l’affannosa ricerca della madre intenta a scartabellare in scatole e contenitori alla ricerca di un articolo su cui ha memoria esserci una precisa citazione, “di intimo c’è rimasto solo…?”, della quale non ricorda la parte finale. La semplice visita di cortesia diventa in realtà pretesto per la rappresentazione di un sogno, o forse di un incubo, con realtà e immaginazione mescolarsi tra loro, interagire di continuo nella definizione di un mondo parallelo abitato da una donna e da un uomo di difficile decifrazione. La scrittura di Pleuteri, già apprezzata nell’interessante Come nei giorni migliori, se a tratti può sembrare eccessivamente bulimica, produce felici esiti nell’interazione con registri differenti, se non addirittura opposti: da un inizio all’insegna del realismo i dialoghi tra madre e figlio slittano progressivamente su toni “altri” caratterizzati da paradossi e da comicità incline al grottesco, sempre cavalcando quella sottile linea che separa il mondo concreto da quello immaginato, la realtà dalla finzione. A movimentare il tutto qualche inaspettata licenza, battute preregistrate o uscite dal proprio ruolo per giocare con i fogli del copione, sequenze stranianti che rendono madre e figlio ancor meno personaggi ma, se possibile, ancor più esseri umani alle prese con un’atavica condizione di isolamento da quel mondo esterno che, ora con lo squillo di un citofono ora con lo svolazzamento fuori dalla finestra, cerca di infrangere la campana di vetro sotto cui si sono autoreclusi. Con il passare dei minuti, alla fine saranno settantacinque, gli a lungo applauditi Picello e Vicino finiscono con il collassare su sé stessi, creature tanto crude e reali quanto oniriche ed immaginarie nel diventare simbolo di una condizione esistenziale prossima all’annullamento, e dove solo maturando la dolente consapevolezza di vivere un’ancestrale sofferenza si può sperare di rimanere avvinghiati a quel tempo presente pronto a ricordarci che “di intimo c’è rimasto solo il dolore”. Roberto Canavesi