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OPERA PANICA - regia Fabio Cherstich

"Opera panica", regia Fabio Cherstich "Opera panica", regia Fabio Cherstich

Cabaret tragico
di Alejandro Jodorowsky

traduzione di Antonio Bertoli

con Valentina Picello, Loris Fabiani, Matthieu Pastore, Francesco Sferrazza Papa,

e con i DUPERDU Marta Maria Marangoni e Fabio Wolf - autori e interpreti delle canzoni originali dello spettacolo

Regia e spazio scenico Fabio Cherstich
Produzione Teatro Franco Parenti
Milano, Teatro Franco Parenti dal 10 al 29 ottobre 2017

www.Sipario.it, 5 novembre 2017

Si può rompere il cinema? E usarlo per portare all'illuminazione gli attori e gli spettatori? E' raccontando delle riprese del suo film "La montagna sacra" che Jodorowsky afferma di aver pensato a questa possibilità; così gli sentiamo dire in una videointervista proiettata al Cafè rouge del Teatro Franco Parenti poco prima dello spettacolo "Opera panica" in scena nella Sala tre. In fondo forse è proprio questo il succo dell'opera di Jodorowsky – letteratura, cinema e soprattutto le tecniche psicomagiche: arrivare il più vicino possibile alla propria verità, al proprio sé; al proprio dio interno.

E il teatro? In un manifesto programmatico del 1965 si legge: "Se l'obiettivo delle altre arti è creare delle opere, l'obiettivo del teatro è cambiare direttamente gli uomini". In "Opera panica" i personaggi di Jodorowsky sono colti come sul limite di una relazione conoscitiva con se sessi e con gli altri bloccata: sono tipi che girano a vuoto sul limite di un'afasia o di un'impotenza e da qui sembrano riflettere, deformandole, riducendole al piccolo della loro vita unicellulare, le articolazioni della vita organica complessa. Così vediamo all'opera i pessimisti, gli ottimisti, gli idioti, il padrone e i suoi servi, l'instabile, la donna ideale. Sono tutte figure pesantemente avvolte nella cappa plumbea della loro nevrosi o ignoranza o egoismo o insensatezza, che nella coerenza della loro rigidità non possono che dibattersi come pesci all'amo esalando un fiato di morte. E' la morte che viene dall'impossibilità di uscire dalla gabbia dell'ego e del senso comune (in quanto al buon senso, Jodorowsky invece ne sembra molto dotato: basti dire, come riferisce nell'intervista di cui sopra, che quando si trattò di assumere gli scenografi per la "Montagna sacra", non potendo operare che con risorse insufficienti, decise di assumere degli artigiani in pensione "perché i vecchi ne sanno più dei giovani"). E' una morte acrobatica la loro perché questi piccoli esseri, ridicoli nel loro dibattersi, raggiungono vette di contorsionismo, con uno slancio delirante che sembra sempre proiettarli lì lì nel volo e che invece poi si rivela essere il primo responsabile della loro caduta. E la crudeltà che spesso manifestano è parente stretta della stupidità che li divora. Non è un ridere edificante quello di chi li osserva dimenarsi nell'insensatezza di un quotidiano che erige da se stesso i propri muri. E' una risata che fa male, che si stempera nell'angoscia, una risata- termometro che misura la febbre dell'uomo contemporaneo e la sua disperante distanza da ogni prospettiva di autorealizzazione. Ma com'è, materialmente, questo teatro? Quali sono le linee lungo le quali si sviluppa concretamente in scena? Niente immagini scioccanti qui, o azioni sceniche eseguite in trance al limite della follia e del delirio: il teatro di Jodorowsky, almeno quello che qui vediamo, a differenza del cinema o degli Effimeri panici degli anni '60, sembra non richiedere un tale florilegio barocco. Sembra proprio solo concentrarsi sulla parola e sulla vita infima e intima di questi personaggi unicellulari, e ristabilire la separazione frontale scena-platea. Così lo spazio della scena è un lungo "corridoio" color grigio chiaro, un'unica fascia cromatica che dal pavimento s'innalza sul fondo a ritagliare una porta con funzione di quinta per l'ingresso degli attori, che entrano ed escono anche dai lati, attraverso una tradizionale quintatura nera, e con gli spettatori di fronte rialzati su gradinata.
Dietro uno schermo posto in proscenio, che deforma e ingrandisce come una lente la fisionomia dell'attore, vediamo recitare il prologo da un personaggio in tuba che pare un Willy Wonka sarcastico e grottesco: dalle sue parole ricaviamo che siamo tutti insieme in volo su un aereo di cui non si conosce la destinazione, "perché è un segreto, che né io né i piloti conosciamo". Come uno steward egli ci avverte che sta giungendo una tempesta, ma è subito chiaro che si tratta di un volo dentro noi stessi, l'aeroplano è un ventre che contiene vita e morte, il bizzarro personaggio ci ricorda che sul velivolo trova posto "un piccolo ufficio di pompe funebri con un forno crematorio".
La frase che chiude il prologo sembra fornire la chiave di quello che accadrà fra poco: "per fortuna abbiamo il diritto di scegliere la nostra follia".
Perché in fondo questo vediamo, un catalogo di locuras quotidiane prese da un campionario variegato intervallato dalle canzoni cabarettanti del duo Duperdu di rosso vestito, che a bordo di un carrellino smilzo attraversa la scena tra un numero e l'altro, intonando canzoni accompagnate con un micro pianoforte verticale.
Cabaret e circo visti attraverso la lente di un'umanità freak, dove il fenomeno, il mostro, è appunto non l'essere deforme, il focomelico, il nano, il microcefalo, ma sono le follie, le piccole aberrazioni quotidiane di questi personaggi. E come in ogni circo che si rispetti ecco a un certo punto apparire l'Acrobata; fin dalle prime battute si sente un'eco nota: "L'uomo è qualcosa che deve essere superato. (...). Io vi annuncio l'uomo superiore": sono le parole dello Zaratustra di Nietzsche. Ma, scopriremo poi, non si tratta di uno dei pezzi di "Opera panica", bensì di un'interpolazione desunta da "Zaratustra", un'altra drammaturgia dell'autore cileno. Ed è in quel momento dello spettacolo che l'attore, in mutanda bianca (il testo lo prescrive nudo), rimanda allo spettatore gli echi di una riflessione che ha percorso in passato, e con violenta radicalità, il lavoro di Jodorowsky, intrecciandosi con analoghe istanze del primo happening americano, rivissute nella Parigi della prima metà degli anni '60 e probabilmente riviste alla luce del teatro di gruppo immediatamente successivo: "Non siete stanchi della vostra inattività? Non avete voglia di alzarvi, allungare le braccia e le gambe, di gridare di salire in scena con me e di abbracciarvi gli uni agli altri?". C'è un'eco livinghiana, un invito a entrare nel flusso dell'azione, a rompere le barriere, però il potenziale liberatorio è neutralizzato, messo in sordina, "ma anche se il pubblico si precipitasse verso di me, s'imbatterebbe in una barriera invisibile, senza riuscire ad entrare". L'Acrobata poi irrompe nella platea salendo fino in cima alla gradinata, continuando a rivolgersi al pubblico, mentre ovviamente nessuno prende in parola le esortazioni di poco prima – forse il cambiamento può prodursi solo dentro noi stessi? "Già nel 1961 dichiaravo che non credevo alle rivoluzioni politiche ma alle ri-evoluzioni poetiche" afferma Jodorowsky nella prefazione al volume che accoglie tutta la sua opera drammaturgica.

E dunque: si può rompere il teatro? Se il teatro si può rompere, se è un rito necessario che "quando si toglie dal suo limite e si estende come un balsamo a ogni attività istrionica, sacra o profana che sia ci offre l'opportunità di uscire da "noi stessi" per scoprire le molteplici possibilità dell'essere essenziale", allora a chiedersi che cosa stia avvenendo in sala dal punto di vista dell'esperienza totalizzante jodorowskiana non possiamo che rispondere che no, qui il teatro non si può rompere, perché quello che vediamo è semplicemente uno spettacolo. Vediamo all'opera una forma che media l'istanza totalizzante che guida la ricerca dell'autore psicomagico con le forme conosciute del teatro d'arte. Certo, è uno spettacolo acrobatico, anche e soprattutto per gli attori, bravissimi: Valentina Picello, Loris Fabiani, Francesco Sferrazza Papa, Matthieu Pastore. E' in loro forse che si compie quel lavoro trasformativo di cui Jodorowsky parla? Chissà. Sicuramente la loro danza scenica li costringe a continui slalom, slittamenti di registro, e soprattutto li spinge a un dinamismo e a un dispendio fisico con corse, cadute, rialzate come in una sorta di training applicato, o a far esplodere la sedentarietà dei personaggi de "Gli idioti", dapprima stravaccati su sedie da ufficio con rotelle, in una carambola continua nello spazio, dove le sedie diventano quasi skateboard a quattro ruote con cui gli attori si proiettano in ogni direzione. Qui rimaniamo insomma dentro la cornice di una messinscena di grande precisione e nitore, come già si era visto in "Bull", Fabio Cherstich sempre regista, con un'analoga glaciale definizione spaziale e di luci, con gli attori impegnati in un corpo a corpo con la follia radicale dei personaggi, in un grottesco sopra le righe che mai risulta stucchevole, o gigionesco, ma sempre composto nella misura esatta che tali maschere richiedono.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Martedì, 07 Novembre 2017 22:23

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