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OPENING NIGHT - regia Cyril Teste

"Le opere "Opening night", regia Cyril Teste. Foto Simon Gosselin "Le opere "Opening night", regia Cyril Teste. Foto Simon Gosselin

Dalla sceneggiatura di John Cassavetes
Regia: Cyril Teste

Con: Isabelle Adjani, Morgan Lloyd Sicard, Frédéric Pierrot
e la partecipazione di Zoé Adjani

Traduzione: Daniel Loayza
Collaborazione artistica: Valérie Six 
Consulenza drammaturgica: Daniel Loayza, Marion Pellissier
Scenografia: Ramy Fischler. Luci: Julien Boizard
Musiche originali: Nihil Bordures. Video: Nicolas Doremus e Mehdi Toutain-Lopez
Operatore video: Nicolas Doremus, Christophe Gaultier
Ingegnere del suono: Thibault Lamy Costumi: Agnès B
Collaborazione ai costumi: Katia Ferreira. Stylist e Hair Stylist: Laurence Azouvy
Roma, Teatro Argentina, dal 27 al 29 settembre 2019 (nell'ambito di RomaeuropaFestival)
In tournèe europea da ottobre

www.Sipario.it, 3 ottobre 2019

CASSAVETES E L'ANTITESI DI STANISLAVSKIJ
Servisse solo a ridestare il ricordo di John Cassavetes, autore fra i più geniali e singolari del "nuovo cinema americano" anni settanta, "indipendente" (e finanziariamente claudicante) per definizione, l'ambiziosa e dibattuta edizione teatrale di "Opening night" ("La sera della prima" nella traduzione italiana del 1977), andata in scena al Teatro Argentina di Roma (solo tre repliche, purtroppo, ma lunga tournée europea in vista), avrebbe già assolto ad un compito meritorio e, a suo modo, "coraggioso". Ma, ovviamente, si va ben oltre. Ad iniziare dalla domanda che rivolgiamo, innanzi tutto, a noi stessi: perché Cassavetes (prematuramente scomparso nel 1989) fu 'artefice' di spettacolo "geniale e singolare"?
Azzardiamo l'immediata risposta che ci saetta per la mente. Per la non banale ragione che il suo essere stato attore, 'preparatore' di (grandi) attori, regista scabro e defilato costituisce- a noi pare- una sorta di antitesi al celebrato metodo Stanislavskij. Liddove all'esercizio psicofisico dell'immedesimazione naturalistico-freudiana dell'interprete "al cuore nel personaggio", Cassavetes (che aveva frequentato, negli anni cinquanta, i corsi della Accademia Statunitense di Arte Drammatica) già nel '57 aveva concepito (con il collega Bert Lane) un proprio Actor's Studio Workshop, basato sull'inverso assioma secondo cui sarà il personaggio ad "andare incontro" all'attore, plasmandolo ed "impossessandosene" sulla scorta di un artistico concepimento intuito a suo tempo dal Pirandello "teoretico". E da Cassavetes perfezionato quale lavoro di gruppo di "persone prima che teatranti", collaboranti all'indagine, all'improvvisazione, all'autoanalisi delle (non rivelate) solitudini metropolitane, dei i rapporti di coppia o familiari deflagranti nella "gabbia insonorizzata" della piccole monadi "formato triilocale", pullulanti fra Manatthan e l'estrema periferia della Grande Mela. Nella totale assenza di relazioni esterne.
In sintesi: psicodrammi, kammerspiel, camere "senza vista" e di (involontaria) tortura, sadica o masochista, in anticipo sui tempi della "alienazione di massa", di cui "Una moglie", "Mariti" e "Opening night" (sempre consegnati affidati alla irripetibile terna di attori "cooperanti": Gena Rowlamds, Perer Falk e Ben Gazzara) restano, probabilmente, i tre esempi paradigmatici, esemplari e meglio dettagliati. In particolare, poi, privilegiando la griglia espressiva del teatro-nel teatro (di un metateatro privo di supponenza cerebrale) "Opening night" è l'opera in cui Cassavetes (nel dedicarla alla sua Gena, compagna di vita) riteneva di "riconoscersi" più che in altre. E che Cyril Teste, regista transalpino dell'odierna edizione scenica, sostiene essere "la più immediata ed esplicativa" del cinema -e del teatro- utopizzati dal suo 'mentore didattico': basato sulla 'presa diretta', sull'arte dell'improvvisazione e spoliazione di artefici nocivi al verosimile (fotografia, montaggio, sceneggiatura che non sia un "canovaccio") con geniale anticipo rispetto a quanto poi maturato da Fassbinder, Von Trier e dal Vinterberg di "Festen"
Di cosa narra "Opening night"? Di una attrice cinquantenne che, provando in provincia una pièce dal 'veggente' titolo "La seconda donna" inizia a percepirsi inadeguata al ruolo, insinuata da una 'voce' interiore che le sussurra qualcosa che di simile al "viale del tramonto". Ad aggravare ogni cosa interviene la morte improvvisa, per incidente stradale, di Nancy, sua giovanissima ammiratrice aspirante anch'essa al palcoscenico. Episodio che aggraverà la crisi interiore di Myrtle, la protagonista, ma che la costringerà (dopo mille peripezie) ad "uccidere" in se stessa il pervasivo fantasma della ragazza e approdare al debutto di un' "auto-rappresentazione" che non sarà più quella "circoscritta" dal copione, ma la (sua) nemesi trasfigurata dalla "deontologica" elaborazione del lutto.
Nella oggettiva impossibilità di emulare il film (per la non-corrispondenza, questa volta, fra il linguaggio del cinema e quello 'replicante' del teatro) Cyril Teste si limita a rendergli un omaggio di alto e indiscutibile professionismo (non di maniera e senza nulla di reverenziale). Rimarcando semmai quanto sia inconcepibile "l'imitazione dell'imitazione" di ciò che fu un work in progress, qui esteriorizzata in una sorta di "produzione di cinema a teatro".
Ovvero affiancando agli accadimenti una proiezione di "frammenti di fotogrammi" in bianco e nero incastonati nel riquadro di una grande libreria posizionata in un interno borghese elegantemente disegnato in una scrupolosa "neutralità" delle "voci e azioni fuori scena". Nonostante i limiti del formalismo d'autore e il sovraccarico tecnologico dell'allestimento (cui sono estranei i tre piani di "escursione" padreggiati da Cassavetes: quello della vita, quello della recitazione "ineludibile", quello di un impercettibile fantastico-delirante) quella che qui appare è – una volta in più – "una compagnia che rappresenta se stessa nell'attività di provare e inscenare la rappresentazione". Nel sacrificio di tutte le originalità, le squisitezze, gli happening che furono la linfa del film originario, anch'esso girato, quasi per intero, all'interno di uno spazio scenico.
Emerge comunque la resa emozionale e interpretativa di un'Isabelle Adjani sedimentatosi tra melanconie vibratili e momentanee risolutezze nell'arco di un'esperienza che va da "Adele H." a "La Regina Margot": a riprova di un talento di attrice fragile, discontinuo, ma di rafforzato talento e fascino magnetico. Mai svenevole.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Venerdì, 04 Ottobre 2019 18:41

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