di Jean Cocteau
traduzione Monica Capuani
con Milvia Marigliano, Mariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli
scene Maria Spazzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Massimo Cordovani
regia Filippo Dini
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale - Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Bolzano
si ringrazia il Comité Jean Cocteau
Treviso, teatro Mario Del Monaco, 28, 29, 30 novembre e 1 dicembre 2024
Famiglia è un porto dove (si dovrebbe) poter contare sempre, attraccare quotidianamente e, sulla carta però, avere splendide intenzioni. Ma non è così, e lo si sa. O almeno in molti casi, perché la famiglia, parola peraltro anche difficile da applicare ormai nella sua pura essenza, ci parla e ci racconta spesso di disgregazione, perdita, annullamento e non credo voglia dire esser pessimisti. Sono realtà, che riguardano l’essere umano e le sue complessità, forse accentuate addirittura in un’epoca come questa. Ma non solo, la cosa infatti parte da molto lontano, potremmo anche dire da sempre. E in questo I parenti terribili di Jean Cocteau, messo in scena da Filippo Dini, anche interprete, visto al Comunale Mario Del Monaco di Treviso, è tutto molto bene messo in luce, con una vena disperata e sarcastica allo stesso tempo. Nella traduzione di Monica Capuani, gli scontri sono portati a un’ennesima potenza che Dini raccoglie da regista, e propone usando l’ironia come arma tagliente e ficcante, affidandosi a un cast decisamente ottimale. E’ il teatro che rappresenta il borghese, poco gentiluomo nei sentimenti e nei valori, piuttosto invece mostrando i pessimi difetti insiti dentro il suo mondo, tutti e nessuno escluso. Una critica, feroce ma anche a tratti affettuosa, che l’autore scrisse probabilmente riuscendo ad osservare i propri simili, del resto che la storia si ripeta non lo scopriamo certo ora. La famiglia è terribile, dunque i parenti tutti, che siano figli, madri, padri, fidanzati acquisiti, zie, possiamo tranquillamente metterci dentro chiunque. Anche in questo caso, le nevrosi vanno a superare le qualità offrendoci uno spaccato dell’umano che è sempre più vicino alla realtà. Il nucleo famigliare rappresentato è dichiaratamente esempio del disturbo ampliato a più voci, dove egoismo, incomunicabilità, falsità, un velo d’incesto (magari più di un velo) entrano a gamba tesa in chi guarda, come fossero uno specchio. Gli intrecci di Yvonne col figlio Michael, dello stesso con Madeleine, di lei con il capofamiglia Georges, e anche del mancato, bloccato rapporto tra quest’ultimo e la cognata Léonie, sono rappresentativi e costanti, rulli compressori nella mente, schiacciasassi rumorosi, disturbanti. Filippo Dini mette in scena dunque un ritratto di famiglia dell’orrore, dopo averla già sondata in precedenti spettacoli scoppiettanti come questo. Non necessariamente sono tutti da condannare, i personaggi, perché qui e là fanno affiorare disperazione e fragilità che fanno compatire, danno dispiacere. C’è infelicità, dolore, passione e scontro con le diverse, inaspettate realtà. Dini, da regista, colpisce bene attraversando le numerose ossessioni con slancio parossistico dove l’amore dovrebbe essere al centro, lo è anche ma si sgretola, prova a rifarsi ma inutilmente. Un indovinato tocco registico, come la stessa interpretazione di Dini nei panni di Georges, confuso e (in)felice. Lo seguono a ruota gli altri, tutti calatissimi nella parte: la moglie Yvonne, ovvero Mariangela Granelli, istericamente masochista sull’orlo dell’autoabbandono, la cognata Léonie, Milvia Marigliano, unica in grado di poter in qualche modo andare oltre la semplice apparenza sentimentale. E i due giovani fidanzati, davvero bravi e in quota, nell’interpretare l’amore trovato e perduto, ritrovato, riperduto, ritrovato ma con riserve e dolore, Giulia Briata e Cosimo Grilli, che mettono nei loro personaggi passione e esercizio. Bella la scena di Maria Spazzi, e i colorati costumi di Katarina Vukcevic. I ritmi della commedia sono alla Dini, congegnati come si deve le battute, anche le più leggere tratteggiano un’immagine densa e vischiosa del nucleo famigliare. Tutto è bene quel che finisce bene? No, naturalmente, anche se tutto pare unbelievable, incredibile, e non lo è. Tanti applausi alla fine. Francesco Bettin