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REPETITION HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE (I) - regia Milo Rau

"The Repetition Histoire(s) du théâtre (I)", regia Milo Rau. Foto Hubert Amiel "The Repetition Histoire(s) du théâtre (I)", regia Milo Rau. Foto Hubert Amiel

ideato e diretto da Milo Rau
testo a cura di Milo Rau e della compagnia
drammaturgia e ricerche Eva-Maria Bertschy
scene e costumi Anton Lukas
video MaximeJennes, Dimitri Petrovic
suono Jens Baudisch, luci Jurgen Kolb
con Sara de Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen,
Tom Adjibi, Suzy Cocco, Fabian Leenders,
produzione International Institute of Political Murder (IIPM),
Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles

con il supporto di Hauptstadtkulturfonds Berlin, Pro Helvetia,
Ernst Göhner Stiftung e Kulturförderung Kanton St.Gallen

coproduzione Kunstenfestivaldesarts, NTGent, le Théâtre Vidy-Lausanne,
le Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai,
Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, le Théâtre de Liège,
Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M.,
Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival

visto al Piccolo Teatro Strehler, 8 maggio 2019

www.Sipario.it, 23 maggio 2019

A prologo e ad epilogo, due sono i testi che racchiudono forse il senso complessivo dello spettacolo: il primo è raccontato dall'attore Tom Adjibi non proprio all'inizio, ma in un punto dopo il quale comincia a dipanarsi tutta la vicenda; il secondo è una poesia di Wisława Szymborska, "Theatre Impression", che chiude. Il primo racconto è un apologo sul teatro: sortisce dalla domanda "cos'è per te il teatro?" che lo staff che segue il casting per la messa in scena dello spettacolo sull'omicidio di Ihsane Jarfi – storia vera – rivolge a uno dei tre attori intervistati in scena, con tanto di ripresa video mandata sullo schermo di fondo – premettiamo che il lavoro è immediatamente metateatrale, dal momento che ci consegna fin dall'inizio una riflessione sull'attore, che in fondo è una domanda sul rapporto che il teatro intrattiene con i morti ("non si può parlare con i morti, ma i morti ci sentono"). Il teatro come cassa di risonanza delle vicende terrene accostata all'orecchio invisibile dei morti, come forma di riscatto, di cura, di ricucitura? Un teatro che per i morti sia come l'eco della vita troncata? Come la sensazione che il mutilato ancora sente dell'arto dopo che è stato amputato. E per noi vivi un entrare nel fantasma d'arto che il morto ancora piange? La brutalità dell'omicidio del resto lascia aperta la domanda bruciante sul perché. Così parte la ricostruzione metascenica dell'inspiegabile delitto. Inspiegabile sia dalla parte degli esecutori (tutto sommato gente "normale") sia della vittima (come di propria volontà entrata nella ragnatela omofoba, ignara, dei tre). Allora, l'apologo: - il teatro è per me una scena vuota - dice Adjibi - con una sedia al centro. Sopra la sedia pende un cappio, l'attore sale sulla sedia, si mette il cappio al collo e dice agli spettatori: se scalcio via la sedia e mi aggrappo alla corda posso resistere venti secondi, se nel frattempo nessuno spettatore viene a salvarmi io muoio - . Muore la persona, l'attore, lo spettacolo, il teatro. In quel momento di suprema scelta lo spettatore può decidere di influenzare la realtà o di stare seduto a guardare. Potente immagine di cosa il teatro potrebbe essere. Un riconciliarsi con la catena d'umanità che tutti ci tiene. Il teatro dunque come scelta, presa di posizione rispetto a ciò che guardiamo. L'apologo è affascinante, si carica di echi, sembra proprio voler dare una cornice al lavoro, dal momento che verrà ripetuto sul finale, e non solo raccontato, quando l'attore monta sulla sedia e si alloca un cappio al collo calato dal graticcio: per un istante si freme, ma nulla accade. Lo spazio del teatro è spazio di evocazione e di metafora, per fortuna. Quanto basta però per fare l'esperienza, sia pur mediata, della realtà. Perché il teatro unisce l'azione alla riflessione sull'azione; per forza d'attore spinge la riflessione sul ciglio dell'esperienza, e se lo spettatore è onesto e lo spettacolo non bara, quella dello spettacolo diventa esperienza tout court. Per il resto, il lavoro è già stato molto raccontato; si sa della sua impostazione da docu-theatre, dove la narrazione in video prevale su quella concreta della scena, la quale va a produrre al vivo materiale per il film o a tratti lo duplica, o meglio fornisce alla liscia finzione di quest'ultimo la rugosità e le aporie del reale; con quegli attori ingigantiti dalla ripresa, che compiono atti quotidiani, si siedono, parlano alla camera rispondendo alle domande degli altri seduti al tavolo come per un casting appunto; che duplicano in scena le azioni filmate, con sensibili ritardi o varianti di postura, in un procedimento che sembra volerci dire qualcosa sulla realtà, sulla sua rappresentazione e sulla rappresentazione della rappresentazione, come in un gioco infinito di specchi in cui le stesse motivazioni alle azioni umane si perdono in un'inafferrabilità angosciante. Perché hanno ucciso, quei tre? Ma non c'è risposta, solo lo shining improvviso del male, di cui nessuno sa vedere l'origine e neanche l'ombra nell'aspetto e negli sguardi dei tre a processo. Lo spettacolo avanza per capitoli annunciati sullo schermo dove tutto viene di fatto raccontato e dove le rugosità, i nodi irrisolti della vicenda prendono la scorrevolezza della narrazione cinematografica – ma noi ora intuiamo la manipolazione intrinseca a ogni racconto ben fatto. Toccante teatralmente, nella sua assoluta neutralità emotiva di azione quasi didascalica, il momento in cui si ricostruisce la morte per congelamento in un'agonia di 4-6 ore del povero Ihsane già brutalmente pestato. Le azioni prive di pathos con le quali i tre ne spogliano il corpo e lo abbandonano nudo prono sul palco, mentre lo spettatore nella mente tesse intorno a quelle azioni tutti i dettagli che gli sono stati raccontati prima, è un momento altissimo. E rimanda alla scena iniziale dei genitori che si svegliano nel cuore della notte perché il figlio non è ancora rientrato; e nel far questo si spogliano in scena, mentre il film ce li mostra a letto nudi a parlarsi e consolarsi; e questa nudità di due corpi anziani nel momento in cui il presagio li coglie, oltre a essere simbolicamente forte, la associamo, dopo, a quella del figlio morto: in una tenerissima analogia nella quale la comunione di destino si manifesta in questo stare nudi e indifesi nel momento in cui il figlio sta agonizzando, buttato in una strada sotto la pioggia.
Ed è forse, il "sesto atto" della tragedia di cui parla la poesia della Szymborska, che chiude lo spettacolo, quell'"estrarre il coltello dal petto,/ il togliere il cappio dal collo,/ l'allinearsi tra i vivi/ con la faccia al pubblico", figura di una vita oltre la vita, dove tutto potrà ricomporsi in un disegno più alto di giustizia?

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 26 Maggio 2019 09:16

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