libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
scritto e diretto da Emma Dante
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Sabrina Vicari
con Carmine Maringola, Annamaria Palomba, Angelica Bifano, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Stephanie Taillandier, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet, Odette Lodovisi
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
organizzazione Daniela Gusmano
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Carnezzeria, Célestins Théâtre de Lyon, Châteauvallon-Liberté Scène Nationale, Cité du Théâtre - Domaine d'O - Montpellier / Printemps des Comédiens
Venezia, Teatro Goldoni, 6 dicembre 2024
«La favola, in realtà, non è di nessuno», sostiene Emma Dante (così in Scattina, 2019). E per le sue origini antichissime e per la sua natura, secolare, di trasmissione orale. Oltre ai lavori in prosa dell’inizio degli anni duemila (poi anche lirici), più caustici e feroci, incentrati sulla tragicità delle vicende quotidiane e familiari (laddove la famiglia è vista come una vera e propria Carnezzeria), la regista e drammaturga palermitana ha sempre lavorato anche sulla fabula, attingendo da quel calderone comune che di Biancaneve ha fatto bambina votata alla vanità e dei sette nani minatori a cui le gambe sono esplose via in miniera (Gli alti e bassi di Biancaneve, 2011); a risvegliare la bella addormentata, invece, era il bacio della principessa (La bella Rosaspina, 2013)… Re Chicchinella chiude la trilogia sul Basile. Lo cunto de li cunti (o Pentamerone) era stato già fonte per La scortecata (2018) e Pupo di zucchero (2020). Un trittico che vede centrale il corpo ora nervoso, ora stanco, ora nudo di Carmine Maringola a masticare, anche con un certo parossismo, il napoletano (già suo) barocco dello scrittore giuglianese secentesco. In origine è La papera, e racconta un’altra storia, e cioè quella di una papera che espelle scudi d’oro in favore di due sorelle, Lilla e Lolla. Emma Dante intercetta Basile laddove la papera viene sgozzata da una vicina invidiosa delle sorelle e un principe la usa per nettarsi dopo aver scaricato in strada. È l’evocazione di una liturgia surrealista a dare l’incipit alla pièce: galline antropomorfe vestite a lutto sgranano un rosario e chiocciano, pregano. È il totale che viene posto all’inizio: il divenire-animale che non permette (più) il comico, anzi il comico lo fagocita per ruttarlo con un sorriso sbieco, storto, preoccupato. Re Carlo III d’Angiò è un re disabile, ammalato, senza trono sul quale sedersi e riposare, con un grosso cancro alle viscere che è la fortuna della sua famiglia e della sua corte. Carmine Maringola dà vita a un regnante contratto, piegato, debilitato, incurvato, dalla fronte sempre aggrottata, nervoso e scattante, che della gonna fa carapace nel quale ripararsi. Nel miglior segno dantiano, gli affetti familiari sono gelidi, pur se questa volta non esplodono. La principessa (Angelica Bifano) si confonde nell’avida corte-pollaio che si ripete uguale a se stessa ad ogni adulazione, seminuda e grottesca, gonfia e col cervello piccolissimo, che scimmiotta passacaglie e danza in tondo solamente per mangiare, mangiare, mangiare, e il suo modo di fare non è più sincero dell’anaffettiva madre-la-Regina (Annamaria Palomba). La trama vuole tutti e tutte avidi e avide di potere. La corte intera, in questo palazzo nero come il fondale in cui è immersa, desidera ardentemente che il Re mangi affinché la gallina che l’occupa possa produrre uova d’oro a beneficio del castello. Questo è il dogma, infatti. E quando è pronto, dopo tredici giorni di digiuno, Re Carlo chiede una fetta biscottata e un’oliva. Accorrono tutti. È quasi festa, ma niente da fare: il dolore è troppo forte. Muore di stenti alla fine, ma muore partorendo. Espelle la gallina in una metamorfosi del divenire: divenire-gallina, divenire-tumore, divenire-grazia. E, morto, può finalmente appollaiarsi sul suo trono nelle vesti di Odette (mai nome fu più icastico per un Aves votato alla scena teatrale). Il festival nel quale si inserisce lo spettacolo, Asteroide Amor, a cura di Annalisa Sacchi e Susanne Franco, ha già portato in platea un folto numero di giovani studenti e studentesse negli appuntamenti precedenti tra Teatro Ca’ Foscari e Teatro Goldoni (Monumentum DA di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo; I Saw Light dei Motus, Whitewashing di Rébecca Chaillon e Aurore Déon; e continuerà con Ilenia Caleo, Bunny Dakota, Eszter Salamon, Bureau Bureau e Katerina Andreou in altri luoghi della città). Non sembra tenere, invece, Re Chicchinella: accorre il pubblico più affezionato dello Stabile, che ride ai lazzi, tutti, per quanto grotteschi e taglienti, e applaude tanto. Troppo, forse. Anche quando non ce n’è bisogno. Enzo Riccio