Un progetto di e con Valter Malosti
progetto sonoro e live electronics Gup Alcaro
traduzione, adattamento e ricerca musicale Valter Malosti
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale in collaborazione con TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Dioniso presentato in collaborazione con Coop Alleanza 3.0.
Teatro Menotti di Milano, 19 novembre 2024
Affrontare William Shakespeare vuol dire 'sprofondare', guardare William Shakespeare vuol dire vedere 'l'abisso' che è dentro di noi, un abisso che da una parte 'emerge' nelle scritture sceniche che approdano al palcoscenico, mescolando micro e macro cosmo, l'intimità dell'uomo e della donna con l'Universo sconosciuto che li circonda, in quella (la scena) che sembra essere l'unico confine conoscibile tra l'una e l'altro. Dall'altra parte, ma inscindibile, c'è la parola poetica che in direzione contraria vi si immerge, che è la scala, tortuosa e ripida, che scende nell'abisso mentre cerca di illuminare alla luce del sentimento le pulsioni torbide e ambigue che lo attraversano. Shakespeare/poemetti, non, e non a caso si badi bene, il più riduttivo I poemetti di Shakespeare, è il progetto teatrale di Valter Malosti che ha il coraggio di affrontare questa doppia direzione, questo andare e venire, questo salire e scendere che è il Bardo, sospeso tra mondo e universo, tra storia e poesia. Ha il coraggio di farlo e soprattutto, a partire dalla scala che scende nell'abisso, riesce a coglierne l'unicità, se non la doppia univocità che li contraddistingue, fatti esteticamente diversi l'uno dall'altro (il teatro e la poesia intendo) proprio per essere sempre compagni l'uno dell'altro, vicini nell'attraversare quel confine che è la scena, il suo “Palcoscenico del Mondo”. Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia sono infatti gli unici due (e qui torniamo al duplice, alla coppia che si confronta dentro e fuori dal testo) poemetti riconosciuti e universalmente attribuiti ad un attore costretto, dalla Peste del 1593 che portò alla chiusura di tutti i teatri nella sua Londra, a stare lontano dal palcoscenico. Scritti grazie alla committenza e sotto la protezione di Henry Wriothesley, conte di Southampton, figura che soprattutto a posteriori suscitò valanghe di ipotesi più o meno convincenti, potrebbero essere stati letti (o interpretati?), probabile o verosimile che sia, alla corte del committente da Shakespeare stesso. Una possibilità intrigante e comunque importante che sta anche alla base, credo, del bel lavoro di Malosti, un attore/regista che si fa traduttore per impossessarsi meglio di quei versi, per cercarne la dicibilità (come direbbe Sanguineti), una dicibilità che non è mai una condizione di neutralità ma al contrario serve a selezionare, tra i mille e stratificati che ogni parola custodisce, uno specifico significante che può condurci ad agganciare il sentimento profondo che in esse percepiamo, illuminando così poeticamente anche il significato condiviso. Un affascinante lavoro di disincrostazione, non solo per attualizzare ciò che è antico, ma soprattutto per recuperare autenticità alla parola in scena, un lavoro che è come dire amplificato dall'altrettanto bel progetto sonoro di GUP Alcaro (dal vivo), anch'esso mai neutrale ma sempre profondamente implicato a sostenerne e liberarne il 'peso'. Infatti non si tratta di un semplice 'accompagnamento', come comunemente inteso, bensì di un vero e proprio confronto/scontro tra voce microfonata e suono, un combattimento di significazione tra l'una e l'altro, che fa della musica stessa un pieno 'deuteragonista'. Infatti, fatta la giusta tara del diverso contesto, Edoardo Sanguineti così scriveva del rapporto tra testo, musica e rappresentazione: “Nella melodrammacità, si capisce, il più della notazione musicale pone un grado ulteriore di sbarramento. Ma intorno alla sua resistenza e durata, nessuno, credo, oserebbe oggi pronunciarsi con animo sereno di vaticinante”. Frizione e confronto, tra testo e traduzione, tra testo e recitazione, tra testo e musica sono infatti il valore aggiunto di questa che non è una lettura ma una vera e propria messa in scena dei due poemetti shakespeariani, nella sua reiterazione della diade, della coppia, del doppio, che sembra riassumere l'essenza dell'essere umano. Due poemetti dunque e due protagonisti per ciascuno, riassunti in una presenza attoriale, quella di Malosti, che li sussume distinguendoli, li separa (per diversità di accento, tonalità sonora e inflessione linguistica) rendendoli però omogenei l'uno all'altro. Il primo andato in scena, Venere a Adone, ripercorre e trasfigura il famoso mito avendo per oggetto/soggetto preminente l'amore, ma quell'amore che per sua stessa natura è incompiuto e quindi accompagna inevitabilmente e ambiguamente, al di là di ogni 'genere', l'amato (che non vuole essere amato), e quindi metaforicamente anche l'amante, alla morte che come un'ombra scura avvolge la vita aspettando pazientemente il suo turno. Il secondo, Lo stupro di Lucrezia, affonda nella leggenda dell'antica Roma e affronta direttamente, dimostrandosi di una attualità quasi sconcertante, la morte a causa di amore quando questo amore è, come si direbbe oggi, 'tossico', ma per di più mostrandoci i tentacoli del cosiddetto desiderio mimetico che spesso imprigionano il sentimento che così si trasforma nel mostro della gelosia e dell'invidia. Scrive in proposito il maestro del desiderio mimetico, René Girard, riferendosi alla 'strana' e straniata esaltazione della belleza di Lucrezia da parte di suo marito Collatino: “Ciò che qui a me pare decisivo, è la congiunzione di due parole essenziali: una ovviamente è <<invidia>> (envy), la parola prediletta da Shakespeare per designare il desiderio mimetico; l'altra è <<eccitò>> (suggested)”. La conseguente trasformazione dalla diade in triade (Lucrezia, Tarquinio e Collatino) è liricamente sigillata da Shakespeare dentro i suoi versi, ma è abilmente posta in evidenza, attraverso il dire della sua recitazione, da Malosti. Ma c'è un altro sentimento che emerge, dopo il rimorso quasi dostoevskiano di Tarquinio, ed è lo 'struggimento' di Lucrezia mentre motiva il suo suicidio, uno struggimento al confine con la nostalgia di ciò che non è stato perché non può essere, cui l'interpretazione di Malosti dà una prospettiva che supera la pur tragica e incombente 'cronaca'. La scena è spoglia, nera e debolmente illuminata da alcuni neon, ma non ha bisogno di alcuna scenografia se non di quel cono di luce che illumina l'attore. È detto dai più che dentro i poemetti di Shakespeare ricorrono molti dei temi delle sue drammaturgie, Valter Malosti in fondo non ha fatto che completare il lavoro, facendolo però a 'regola d'arte'. Nella ampia sala del Teatro Menotti di Milano, affollata, uno spettacolo assai intenso, coinvolgente e per questo a lungo applaudito. Maria Dolores Pesce