da Henrik Ibsen
adattamento Ármin Szabó-Székely
traduzione Tamara Török
regia Kriszta Székely
con (in ordine alfabetico)
Valerio Binasco, Laura Curino, Alice Fazzi, Mariangela Granelli
Lisa Lendaro, Simone Luglio, Marcello Spinetta
scene Botond Devich
costumi Ildi Tihanyi
luci Pasquale Mari
suono Filippo Conti
assistente regia Giovanni Miglietti
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Carignano, Torino 20 mag – 8 giu 2025
Meglio i castelli in aria di una casa vera: lasciarsi andare a un’immaginazione senza limite, piuttosto che chiudersi tra quattro mura (compiute e definitive); vivere e trarre continua adrenalina dal desiderio inappagabile, dall’ambizione più che dalla realizzazione. È davvero così? La drammatica verità di Solness, per quanto atroce, sembra essere un’altra. Il dramma della maturità, composto nel 1892 da Henrik Ibsen (titolo originale, Il costruttore Solness), torna in scena al Teatro Carignano di Torino, in un adattamento firmato da Ármin Szabó-Székely e con la regia di Kriszta Székely. È molto affascinante questo Solness della contemporaneità (interpretato da Valerio Binasco): creativo, elegante e di successo; architetto rampante, oggi si direbbe archistar, dirige il suo studio senza porsi scrupolo di far aspettare i clienti, o addirittura di respingerli con snobismo. Lavora circondato da pochi collaboratori, che oscura (relegandoli nel suo cono d’ombra) ma da cui trae linfa creativa, risucchiandoli come un’ameba. Li tiene ostaggi del suo ego, così come la moglie Aline (spirito errante in una casa bella solo di facciata, destinata ad accogliere il vuoto, la perdita e a non essere mai terminata). La regia di Székely ha il pregio di offrire in dono al pubblico l’attualità di Ibsen, indagatore nei suoi drammi dell’animo umano nelle sue inconfessabili ferite. Piaghe germinative di rotture, di distruzione. È così, paradossalmente, anche per l’architetto Solness che fa dell’ambizione a creare la sua ragione di vita: le sue visioni non hanno limite, egli si crede un Dio; proprio come appare agli occhi di Hilda, figura centrale del dramma. Hilda, la giovane ammiratrice comparsa da un passato rimosso e indecente come una nemesi: l’idolatrice, ma anche l’amante cancellata. Solness è avvezzo a costruire il presente e il futuro fagocitando le donne che lo circondano: energia, entusiasmo, bellezza e passione; tutto è capace di saccheggiare, senza pietà e in funzione del culto di sé. In maniera simile a come fa coi collaboratori sul lavoro (anche maschili): ne succhia la polpa della creatività e della grinta, per poi sputare via il nocciolo. Solness è un parassita astuto quanto fortunato, che dà sfogo alla propria ambizione attraverso la menzogna. Ma qualcosa, a un certo punto, va storto: grandezza del drammaturgo Ibsen, che punisce il suo protagonista così come il mito greco sanziona il peccato di hỳbris (la tracotanza che conduce alla prevaricazione dell’uomo contro il volere divino). Nell’interpretazione di Binasco (altrettanto correttamente, si può dire nell’adattamento di Ármin Szabó-Székely e nella regia di Székely) si illumina in modo forte ed efficace il senso di vertigine che pervade e tormenta Solness, che lo spinge costantemente sull’orlo di una balaustra e gli impedisce di tenersi in equilibrio, tra l’angoscia del confronto generazionale (e del sentirsi, d’improvviso, vecchio e bollito) e il delirio di onnipotenza. È interessante il delirio del protagonista reso attraverso lampi di luci sulla scena cupa e l’intrusione di musiche che (inaspettate) sciolgono le briglie a incubi e paranoie. Giovanni Luca Montanino