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SONJA - regia Alvis Hermanis

Sonja Sonja Regia Alvis Hermanis

di Tatjana Tolstaja
regia Alvis Hermanis
con Gundars Abolins, Jevgenijs Isajevs
scena e costumi: Kristine Jurjane
Modena, Festival Vie, Ponte Alto, 12 e 13 ottobre 2007
Roma, Teatro India, dal 14 al 16 novembre 2008

www.Sipario.it, 18 novembre 2008
Panorama, N. 44 2007
Il Manifesto, 14 ottobre 2007
Corriere della Sera, 14 ottobre 2007
Ladri sì, ma di anime

Da quindici anni ormai, Le Vie del Festival, attingendo al panorama delle rassegne estive, porta a Roma tematiche interessanti con linguaggi esuli dalle collaudate programmazioni.
L’Associazione Cadmo, con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma, quest’anno punta sull’affermato Alvis Hermanis, dedicandogli al Teatro India uno speciale progetto e dandoci così la possibilità di approfondire la conoscenza del regista lettone alla guida del Nuovo Teatro di Riga, grazie anche ad un incontro con lui a cura di Gianni Manzella.
Recitato in russo con sovratitoli in italiano, dopo il passaggio a Modena a Vie Scena Contemporanea, fa tappa nella capitale la magia di Sonja, toccante ritratto della miseria ordinaria di un’esistenza, tratto dall’omonima novella della scrittrice russa Tatjana Tolstaja, bisnipote del grande Tolstoj.
In una casa di bambole, entrano furtivi due goffi e corpulenti malviventi con il volto coperto da una calzamaglia. Le case, si sa, hanno un’anima e un po’ per gioco, un po’ per amore, i due attori ricostruiscono la vita della sfortunata padrona di casa.
Il più deciso dei due spoglia il complice dei suoi abiti e lo costringe ad indossare biancheria, un abito da donna e una parrucca con bigodini. L’intimità domestica di Sonja - ed è questa la forza della visione di Hermanis - s’impossessa pian piano di loro e tutto ritorna a vivere, a soffrire, ad amare.
L’interno è maniacalmente ricostruito; riusciamo quasi a sentire gli odori della Leningrado degli anni ’30. In scena non manca davvero niente: pentole, album di fotografie, provviste, cuscini, letto, catini, tavolo con tovaglia ricamata, macchina da cucire, una libreria, vecchie bambole. Da ogni angolo straripano oggetti che parallelamente narrano la storia.
Vittima di un poco innocente scherzo, Sonja, vita dura e animo fragile, per anni intrattiene un platonico rapporto epistolare con Nikolai, immaginario spasimante partorito dalla mente dei suoi crudeli vicini.
Nei cenci della protagonista, Gundars Abolins non cede alla tentazione di fingersi donna. Bastano i suoi straordinari silenzi e sguardi a renderci l’anima ancora sanguinante di Sonja, regalandoci momenti di intensa delicatezza. L’attore sfodera un ampio registro, passando con facilità dal burlesco al tragico, fino a sfiorare il patetico.
Jevgenijs Isajevs, che invece dà voce al diario della donna ritrovato in un cassetto, diventa una proiezione invadente e senza riguardi dell’uomo che Sonja non ha mai avuto, ma anche del mondo che la spia morbosamente dalla finestra e da cui cerca invano di difendersi.
Il regista non lascia niente al caso. Grazie al sapiente uso delle luci di Krisjanis Strazdits, sfrutta ogni singolo sguardo, ogni singolo oggetto, ogni singolo silenzio per scongelare, con tenerezza e ironia, la tristezza del quotidiano della donna, trasformandolo in una pagina di teatro capace di muovere, rimuovere e commuovere gli animi.

Il teatro torna ad essere una scatola magica capace di trasformare una storia in poesia. Come bimbi che riescono a vedere mondi in un pezzo di legno.

Cosimo Manicone

Burla d'amore

Due uomini con il volto coperto da una calzamaglia, un interno povero ma decoroso, un album di foto e un diario... Alvis Hermanis è un ladro di vite. I due tizi, teppisti o detective poco importa, si fanno irretire dagli oggetti che rimandano alla vita di Sonja, la stupida e insignificante Sonja dall'aspetto sgradevole ma dall'animo così sentimentale. Finché uno di loro ne indossa i vestiti e diventa Sonja a tutti gli effetti, mentre l'altro ripercorre attraverso il diario ritrovato la feroce burla amorosa che, facendole perdere la testa per uno spasimante immaginario, ha dato un senso alla sua vita.
Potrebbe essere un banale mélo, da un racconto di Tatiana Tolstoja. Invece Sonja, che Hermanis ha presentato a Modena nell'ambito del Festival Vie, è un piccolo capolavoro. Questo sì che è teatro vero: una scena fissa, due attori strepitosi, Gundars Abolinis e Jevgenjis Isajevis. Alla base, una solida certezza: per diventare Sonja, non c'è bisogno di fingersi donna. «Dubito che l'anima possa avere un sesso» dice il regista estone. E anche a noi, proprio come a Sonja, basta poco per
sentirci soli.

Roberto Bartolini

Torna, con l'autunno, una nuova stagione di festival. E torna, a Modena, Vie, il festival che da qualche anno è diventato da noi il più importante sguardo alla scena contemporanea. Torna Alvis Hermanis con il teatro di Riga, che la scorsa edizione avevano entusiasmato con By Gorky, e con loro Romeo Castellucci e Danio Manfredini, Rimini Protokoll e un'altra ventina di artisti e gruppi, a seguire il lavoro inaugurale di Tim Etchells.
Metti sedici ragazzini schierati in fila nella luce del proscenio. Tutti diversi, di età e di altezza. Alti bassi magri cicciotti. Con lunghi capelli ricci. Con la salopette. Con gli occhiali. Più biondi che bruni. Senza vestiti griffati ma colorati in tutte le tonalità di una scatola di pastelli. Un coro composto, le braccia distese lungo i fianchi, quando iniziano a scandire le parole del testo, con musicale precisione. Nasce da una singolare commistione produttiva That night follows day, ovvero il lavoro che da tempo la compagnia Victoria di Gent conduce con bambini e adolescenti (era loro l'indimenticabile Bernadetje di Alain Platel, uno degli spettacoli più amati del decennio scorso) e la visione intellettuale del teatro propria di Tim Etchells, il regista di Forced Entertainment. Dell'artista britannico è certo il rigore gestuale imposto ai giovani interpreti, speculare al fluire ritmato delle parole - torna in mente per altri versi l'immobilità di Exquisite pain che Etchells ha tratto di recente dal concettuale libro-oggetto di Sophie Calle. Sono brevi frasi, che quasi sempre iniziano con un «voi», intesi come adulti. Ma anche, evidentemente, come pubblico (di adulti) che in quei ragazzini è costretto a specchiarsi. Cioè a far i conti con quel catalogo di comportamenti quotidiani e gesti abitudinari, di frasi fatte e luoghi comuni che loro ti mettono davanti. Con una lucidità disincantata che non maschera l'affetto ma non cede all'ironia. Voi ci nutrite, dicono le parole. Ci vestite. Voi ci guardate mentre dormiamo. Ci insegnate che non bisogna parlare con gli sconosciuti. Ci spiegate che l'elettricità e l'acqua non vanno bene insieme. Che la notte segue il giorno, come appunto dice il titolo. Quando sembrano aver detto tutto quel che avevano da dire, se ne vanno un po' alla volta a sedere su una panca posta sul fondo, davanti a una spalliera da ginnastica che dà allo spazio scenico l'immagine di una palestra. Dove possono giocare anche a un momento di ricreazione. Passandosi un microfono l'un altro, azzardano promesse collettive. Ma poi è troppo forte il richiamo di quella prima linea, da cui si può guardare diritto in faccia agli spettatori. Perché quel che conquista davvero è la naturalezza con cui occupano la scena, i gesti minimali che si scambiano, la verità dei loro corpi e delle loro voci. Il teatro salvato dai ragazzini? Certo sarebbe piaciuto a Elsa Morante, questo spettacolo.
Bisogna spostarsi in un capannone fuori città, per assistere a Sonja che Alvis Hermanis ha tratto da un racconto di Tatjana Tolstaja. Qui troviamo ricostruito un interno che odora di passato, con il gusto quasi filologico per il dettaglio d'epoca e il naturalismo delabré cari al regista lettone. Il letto con le testate metalliche. L'armadio con lo specchio. Il tavolo rotondo con la tovaglia ricamata e il vasetto di fiori. La credenza e la cucina a legna. C'è proprio tutto. La pendola che scandisce il tempo e il vaso forato che sostituisce il rubinetto. Siamo più vicini al Revidents di qualche anno fa, che ambientava il grottesco Revisore di Gogol fra i fornelli di una sorta di trattoria familiare, che non alla contemporaneità rilucente di By Gorky. E però con un ulteriore slittamento all'indietro nel tempo, in questa sorta di storia in minore dell'impero sovietico, visto dalle stanze di servizio.
In questa stanza angusta e ingombra entrano due omoni con una calza da donna calata sul volto. Frugano dappertutto, con le mani guantate. Fanno andare il vecchio grammofono. Infilano le dita nella marmellata. Più che per rubare sembrano venuti in cerca di qualcosa. In cerca di una storia. E infatti quando spunta un album di fotografie e dall'armadio tirano fuori abiti femminili, quello all'apparenza più forte gerarchicamente si getta sull'altro, lo spoglia a forza, lo costringe a vestire un vestitino col fiocco e una parrucca con i bigodini. Come evocata da questa azione violenta, sotto la spinta delle parole con cui l'altro ora la presenta, la donna comincia a muoversi per la stanza, con un'aria attonita. Prepara la tavola, per due. Si siede da sola davanti alla zuppiera. Prepara una torta di cioccolato. Si mette al lavoro alla macchina da cucire.
Sonja è un lungo atto senza parole, che si dipana attraverso le azioni della donna evocata. A fianco scorre, come una didascalia, il racconto parallelo di quell'altro ospite della scena, ed è snodo drammaturgico fondamentale questa divaricazione. Invadente e privo di riguardi, l'uomo si getta sul letto e affonda la bocca nella torta. Sonja era stupida, ci dice. Sonja si vestiva in maniera impossibile. Sonja era un essere romantico, e anche se per poco è stata felice. Decisero di farle uno scherzo atroce, si inventarono uno spasimante che ogni mese le inviava una lettera d'amore. Lei teneva il segreto e continuava a cucinare e pulire, lo sentiamo l'odore che viene dalla scena mentre taglia gli odori per il ripieno del pollo.
Non è facile entrare in questo spettacolo. Non ha l'immediatezza di altri lavori di Hermanis. In questo mondo lontano nello spazio e nel tempo, la Leningrado degli anni 30. E tuttavia Sonja, lo spettacolo e la sua protagonista, progressivamente trascina lo spettatore dentro il suo mondo, vincendo anche il fastidio della traduzione in cuffia. Che si accorge allora, lo spettatore, che quel racconto, quella didascalia implacabile che pretenderebbe di restituirci con la storia l'immagine di una donna, in realtà non ci dice niente, nemmeno la sua stupidità. Non la sua vita interiore, al di là di ciò rivelano i suoi turbamenti, i suoi trasalimenti. A cui si può arrivare solo per altre vie, forse con lo sguardo.

Gianni Manzella

Il regista Hermanis mette in scena un racconto di Tatjana Tolstaja
Sonja, una stupida (felice) romantica

Leggendo in treno il racconto Sonja di Tatjana Tolstaja mi chiedevo come il regista lettone Alvis Hermanis avrebbe potuto tradurre in spettacolo una cosi calcolata prosa. La Tolstaja, nata a Leningrado nel 1941, è un' autrice di racconti approdata al romanzo, ci informa il compianto Mauro Martini, solo nel 2000. Se si sta alle due raccolte tradotte in italiano, Sotto il portico dorato e La più amata, questo tardivo approdo non è sorprendente: per un temperamento lirico come quello della Tolstaja scrivere un romanzo, mi dicevo, deve essere stato un' impresa, come sarà per Hermanis portare in scena Sonja. Al contrario, la naturalezza con cui Hermanis l' ha fatto è stupefacente. Per i primi 3-4 minuti non si capisce, poi di colpo è tutto di una chiarezza assoluta, come la luce trasmessa dalla Tolstaja. In un ambiente povero e dignitoso, che raccoglie un' intera casa, entrano due ladri, due uomini con una calza sul viso. I due ladri litigano. Noi siamo perplessi, tutto ciò nel racconto non c' è. In scena ci sono le brocche, i catini, gli asciugamani (quindi il bagno); ci sono i fornelli, le pentole la credenza (la cucina); c' è la macchina da cucire, l' armadio, un tavolo per mangiare (il soggiorno); c' è un letto, un comodino, una piccola libreria, una toletta (la stanza da letto). I due ladri per un po' si azzuffano tra loro, non si capisce se scherzano o fanno sul serio. Poi uno dei due si butta sul letto e, davanti allo specchio, si veste da donna. L' altro apre un album di fotografie, guarda e legge, legge e racconta. La sua è la voce della narratrice, la Tolstaja; mentre il secondo ladro, l' ormai sgraziata femmina, è la stupida Sonja («Nessuno mise mai in dubbio questa sua qualità, ed ora non c' è più nessuno che possa farlo»). I due ladri sono entrati in un mondo magico, non sono più ladri. I rapitori sono stati rapiti. Da che? Dalla prosa della Tolstaja, dal suo racconto! Uno si è identificato in lei, l' altro in Sonja. Sonja prepara una torta. Il narratore ci cade, si impiastriccia il viso e le mani. Sonja passa alla macchina da cucire, poi farcisce un pollo, lo unge e maneggia ben bene, quasi lo accarezza. Ma c' è quella valigia lassù, viene tirata giù, ne esce una miriade di bambole. Lo spettacolo di Hermanis scorre come un piccolo fiume tranquillo, ma in esso non c' è pace. Il racconto della Tolstaja prende corpo, va al sodo. Sono gli anni della guerra, alla stupida Sonja un gruppo di idioti combina uno scherzo, le fanno credere che Nikolaj spasima per lei, le scrivono lettere d' amore, Sonja ne legge una, sviene, aspetta le altre con ansia, risponde. Lei, ovvero il ladro che è in lei, cade nella trappola, apre un comò, ecco un mucchio di vecchie lettere, la storia di una vita non vissuta, la storia di un inganno e di una straordinaria illusione. Ora di tutto questo non c' è più traccia, cioè vi sono le povere tracce che abbiamo davanti agli occhi, ma non vi sono più testimoni, tutto è polvere e silenzio. Sonja «si innamorò a tal punto che prova solo a farla smettere»: in questo passaggio dal racconto indiretto a quello diretto, rivolto ad un interlocutore presente qui e ora, o lì e allora, c' è tutta la meravigliosa qualità lirica della Tolstaja, la sua abnorme capacità di concentrazione e immersione nella intimità di un personaggio, a coglierne i minimi palpiti, di psiche e anima. Ma per quanto, fatalmente, ne diminuisca l' ellitticità, nell' abnorme quantità di minimi gesti dei due ladri, in quella minuta casa, c' è tutta la sensibilità percettiva di Hermanis, nel rappresentare su una scena, questa versione contemporanea, ai limiti del dicibile, di Un cuore semplice di Flaubert. Chi altro è Sonja se non una nuova Félicité? Ella fu ingannata ma, ci dice la Tolstaja, «fu un essere romantico. Fu felice? oh sì! questo, sì! altro, forse no, ma felice sì!».

Franco Cordelli

Ultima modifica il Domenica, 29 Settembre 2013 12:47

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