di Arthur Miller
Traduzione Masolino D’Amico
Con Elena Sofia Ricci, Maurizio Donadoni, David Coco, Elisabetta Arosio,
Alessandro Cremona, Serena Amalia Mazzone
Regia: Armando Pugliese
Scena: Andrea Taddei
Costumi: Barbara Bessi
Luci: Gaetano La Mela
Musiche: Stefano Mainetti
Teatro Eliseo di Roma dal 4 al 16 febbraio 2020
La tournée: 18/02/2020 Cento (FE) Centro Polifunzionale Pandurera- 28\2\2020 Sanremo Teatro del Casinò
VITE DI CRISTALLO
Non so se è stato già scritto, o forse no. Fa lo stesso. Sta di fatto che ogni volta che ci si trova al cospetto della drammaturgia di Arthur Miller (anche nelle opere convenzionalmente ‘minori’) non si può tacere e dare per scontata la sua peculiare attitudine di saper segmentare, e quindi ‘raccontare’, “una parte per il tutto”. Nel paradigma di personaggi in dissidio, disagio, conflitto sociale e personale con l’american dream di tutto l’emisfero occidentale. Servendosi, egli, di microstorie che rimandano a quella “macro” : che non è mai univoca e percorsa su binario singolo. Storia (e quindi “storie” di persone, nell’accezione cara ad Elsa Morante) che sarà acquisita e tramandata con l’accademica presunzione dei ‘sacerdoti del sapere’, verso i quali autori come Miller -ma anche Chomski ed Herman, nell’ambito della controcultura critica, radicale, sociologica- acquisiscono il basilare impegno di disvelare, e non sorvolare, sulle tragedie individuali promanate dal dissenso (o dall’accettazione passiva) rispetto ai dettami del liberismo più sfrenato e ‘sbranante’ delle nuove ed illusorie frontiere.
Nessi di causa e di effetto, spesso sottotraccia ed impalpabili (ma poi destinati a deflagrare, come in “Uno sguardo dal ponte” e “Morte di un commesso viaggiatore) che affiorano gradatamente, inesorabilmente in “Vetri rotti”, dramma del 1994, giunto in Italia (salvo essere smentito) una sola volta e nella sfaccettata, torrenziale interpretazione di Valeria Moriconi (che fu diretta, per l’occasione, da Mario Missiroli). Verso cui si instrada questa sobria, incisiva di edizione diretta da Armando Pugliese, corroborata da una terna di attori in perfetta sintonia ed efficacia. Ovvero Elena Sofia Ricci, nel ruolo della vibratile protagonista Sylvia Gellbrug, e due esperti comprimari in grado di assecondarla al meglio: Maurizio Donadoni e David Coco, che ‘agiscono’ da marito e da medico curante della donna.
Sylvia Gellburg, ebrea e casalinga, viene colpita (come in un celebre caso affrontato da Freud in persona) da una improvvisa paralisi agli arti inferiori. Herry Hyman, sanitario e suo coetaneo, è convinto della natura psicosomatica del male. Ma, al tempo stesso, è sentimentalmente attratto dalla donna, mentre il marito di Sylvia, Phillip, non riesce ad accettare il precipitare degli eventi. A tutto (o quasi) esiste una spiegazione. Apprenderemo infatti che la donna è ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania. In particolare dagli echi della famigerata “Notte dei cristalli, cui si somma (come se fossimo nel mondo reticente ed implosivo di Ibsen) l’angoscia della protagonista per altre fonti di frustrazione ed inquietudine. Alle quali non si riveleranno estranei l’incrinato rapporto coniugale e l’atavica allegoria dei “vetri rotti” – e sparsi per terra- che festeggiano la tradizione matrimonio yddish
Miller, in filigrana, trattando il tema dell’Olocausto, torna dolorosamente ai suoi anni giovanili, alla linfa mai rimossa delle proprie percezioni, sensazioni, reticenze di un tempo, ambientando la sua opera “in una Brooklyn isolata e provinciale, (in)soddisfatta della propria mediocrità”, tuttavia percorsa dai fremiti di insicurezza e paura che furono dello scrittore a iniziare dalla sua infanzia, consumata (traumatizzata) al tempo della Grande Depressione (fine anni ’20). Quasi che la “spada di Damocle” dell’Imprevisto e del Male Assoluto governasse (e governi) indisturbata, sin dalla notte dei tempi, l’atroce esistenza dei più fragili e ‘cagionevoli’ – per eccesso di sensitività.
Scandito da una certa meccanicità di dialoghi e frasi comuni, lo psicodramma affida la sua ambientazione ad una semplice parete di fondo che si apre e si chiude, come persiane o ante di armadio, consentendo l’entrata e l’uscita di pochi elementi (su cui sovrasta inespugnabile un letto matrimoniale). Quindi sussurrando “chiusure” e “idiosincrasie” di personaggi scandagliati attraverso una dettagliata psicologia comportamentale, ma non più in grado di risalire la china dell’ auto dispersione. Sancita da quello scarno sentimento di pietas umana che è tipico di tutta la produzione di Miller, cui la vita non risparmiò declassamenti, tormenti, vuoti di inutilità interiore.
Angelo Pizzuto