di Christoph Marthaler
con Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer, Graham F. Valentine
drammaturgia Malte Ubenauf
scena Duri Bischoff
costumi Sara Kittelmann, trucco e acconciature Pia Norberg
luci Laurent Junod, suono Charlotte Constant
collaborazione alla drammaturgia Éric Vautrin
produzione Théâtre Vidy-Lausanne, Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, MC93 - Maison de la culture de Seine-Saint-Denis, coproduzione Bonlieu Scène nationale Annecy, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Festival d’Automne à Paris, Théâtre National Populaire de Villeurbanne, Maillon Théâtre de Strasbourg - Scène européenne, Malraux scène nationale Chambéry Savoie, Les 2 Scènes - Scène nationale de Besançon, tnba - Théâtre national Bordeaux Aquitaine, International Summer Festival Kampnagel, nell’ambito del progetto “Interreg franco-suisse” n° 20919 – LACS - Annecy-Chambéry-Besançon-Genève-Lausanne
al teatro Strehler, Milano, 6 maggio 2025, prima nazionale
Ha debuttato a Milano, allo Strehler “Il vertice” di Christoph Marthaler Oltre l’assurdo beckettiano in un mondo, sintetizzato dalla scena teatrale, dove tutto resta sospeso in gesti che ritornano di cui sembra essersi perso il senso: nello spettacolo “Il vertice”, prima regia che Christoph Marthaler firma con il Piccolo Teatro di Milano, si coglie ancora la poetica di questo visionario della scena che si è molto amato e che si era perso di vista da qualche anno. Al debutto allo Strehler tanto pubblico di volti noti e molta disponibilità a ridere mentre i sei interpreti, Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer e Graham F. Valentine vivono in una condizione claustrofobica, che a tratti evoca condizioni estreme in un tempo indefinito. Si parla di ossigeno trasportato dalla montagna ai centri urbani e da una voce esterna si ordina a un certo punto di non uscire, divieto assoluto per quindici, diciotto anni! Una sorta di rifugio alpino, tutto in legno, organizzato per razionalizzare al massimo lo spazio, letti a castello, un ripiano di tavolo da far scendere dalla parete, scomparti con più funzioni, diverse le sorprese. Sul fondo una sorta di calapranzi che però trasporta anche le persone, che arrivano un po’ alla volta. Sembra non abbiano uno scopo, se non l’obbligo della convivenza. Non esprimono emozioni personali, privi anche di un passato da raccontare. In qualche passaggio dialogano come in un bar sport esplodendo in sgangherate risate collettive. Uno di loro suona la fisarmonica: ne ha due che cambia riponendo subito l’altra. Già: lo spazio è quello e si cerca di non fare troppo disordine, movimenti e gesti solo in apparenza quotidiani, naturali. Lingue diverse: tedesco, francese, inglese e italiano. Solo in qualche passaggio si ripete la stessa frase tradotta con l’intento di poter capire tutti. Diversamente ciascuno esprime pensieri che restano nell’aria senza interlocutori. Qualcuno fuori c’è: arriva del cibo per esempio. E ogni tanto si sente il rumore di un elicottero seguito da esplosioni. C’è una guerra? E’ per quello che sono lì? Come fuga o perché devono decidere qualcosa insieme? “Summit”, il titolo, indica sì una cima ma anche un incontro ad alto livello dove si deve decidere qualcosa di molto importante. Questioni politiche? All’inizio sembra che si voglia cercare un accordo a partire dai suoni, dai ritmi: seduti intorno, tutti con lo stesso fascicolo tra le mani, come in un coro, sperimentano ritmi comuni di monosillabi, one, yes, sì, ja, qui, but… con diverse modalità, anche interrogative. Tornano tempi vuoti, fors’anche nel timore di agire tra estranei. Non ci sono presentazioni, non si sanno i nomi. Ma a volte pare che ci sia una comune consapevolezza, come quando - ormai al termine dello spettacolo - insieme il gruppo ricopre di panni quella forma rocciosa a cono con sbalzi, dislivelli, al centro della casupola, simbolo forse proprio del “summit”, da accudire, da proteggere. All’inizio, tra elementi tirolesi e zaini, pare proprio che sia quella solo una baita rifugio dove spesso ci si trova a convivere tra appassionati della montagna di paesi diversi, spazio da condividere che nello spettacolo si trasforma anche in sauna finlandese, asciugamani bianchi intorno ai corpi, vapori che si espandono con relative frustate stimolanti (e qui qualcuno sfida un altro, esagera con la violenza su di sé: motivazioni sotterranee irrisolte?). Si parla di mappe in versioni diverse. Si citano frammenti d’autori. Tra gli italiani Patrizia Valduga, Giuseppe Ungaretti, Antonio Moresco. Alcuni versi di Pasolini sono cantati insieme, dalle sonorità interne che ritornano: “O immoto Dio che odio/ fa che emani ancora vita/ dalla mia vita/ non m’importa più il modo”. Si è persa la facoltà di trovare da soli parole, concetti, carichi di senso? Residui importanti da tenere a mente in una situazione da fine del mondo o evocando “Fahrenheit 451”? “Non posso più leggere nulla. Non posso più vedere. Sono nell’invisibile…”, così da Christophe Tarkos, parole di poeta. Vengono effettuati dei test d’attenzione, di memoria. Siparietti cantati. Forte il dislivello con quei dialoghi di niente scanditi da risate grossolane. La voce esterna ricorda che i sentieri che portano a valle sono completamente chiusi: “vi preghiamo di rimanere dove siete”. Cambi d’abito. Una delle tre attrici veste un lungo abito luminoso con elementi che ricordano i colori della bandiera, come per un’inaugurazione cittadina. Più tardi arriveranno invece delle tute/ pigiama simili per tutti. Battere le mani in scansioni comuni. Le luci al neon a tratti vibrano, come se stessero per esaurirsi. “Raggiungere una vetta significa svolgere un lavoro fino in fondo?”. C’è chi sente la mancanza del denaro che dà la forza di muoversi, di pensare, “il denaro calma la mente”. Pensieri di un poeta si alternano a frasi prese da internet. “Gli obiettivi sono sogni con scadenze”. Qualcuno pare bloccarsi in proprie fissazioni, frasi ripetute: “Una stanza mi basta”. Il tempo scorre? L’esperienza del terremoto. In posa per le foto del cerimoniale, si sentono i rumori degli scatti. “Prisencolinensinainciusol”: uno del gruppo canta il travolgente brano di Celentano e tutti seguono il ritmo, bisogno di ballo, parole incomprensibili, una sorta di grammelot vertiginoso dal vasto successo internazionale. Ogni tanto appare uno schermo televisivo che tutti guardano incantati, passaggi brevi. Scende da una sorta di fax sospeso un foglio lunghissimo. Forse non sono stati abbandonati? Esercizi presciistici. Arriva dall’alto un sacco con tante bombole di plastica vuote da gonfiare come palloncini. Suoni d’uccelli che paiono artificiali. Viene trovato un volume dai fogli mobili: residui culturali? A turno leggono. Dylan Thomas, Gert Jonke, Aldo Nove… Ma “il vertice ha freddo”. Viene coperto. Si canta. Alla televisione il suono del violino pare accordarsi con le voci. Termina così questo “Summit”: sì, ancora e sempre Marthaler, tutti molto bravi e in felice accordo gli interpreti, ma situazione dopo situazione, come se mancasse un nocciolo interiore che sappia tenere il tutto unito, anche nel nonsense dell’assurdo. Valeria Ottolenghi
In un rifugio di alta montagna un raduno in lingue diverse, tante citazioni d’autore
Molto bravi gli interpreti in una condizione d’incertezza di presente e futuro