di Antonio Latella e Federico Bellini
regia Antonio Latella
scene Annelisa Zaccheria
costumi e simboli personaggi Simona D’Amico
suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
movimenti coreografici Alessio Maria Romano
assistente alla regia Paolo Costantini
con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
al Piccolo Teatro Grassi, 23 gennaio 2025
Chi segue Antonio Latella sa che il regista non teme di andare in fondo alle sue dee, che è un regista che ama mettersi alla prova e, un po’ sadicamente, mettere alla prova anche il suo pubblico. È questa riflessione e giustificazione, al tempo stesso, che emerge dopo la visione di Zorro. Nelle note di regia Latella spiega perfettamente le sue intenzioni e come non mai ciò che ha voluto dire corrisponde esattamente a quello che accade in scena. Il punto di partenza è stata la visione di due senzatetto vestiti da Zorro, sotto i portici di via dell’Indipendenza a Bologna, che chiedevano la carità con un registratore che riproduceva la sigla del telefilm. La z di Zorro era un segno, una convenzione, che segnalava il passaggio del cavaliere mascherato, impegnato a togliere ai ricchi per dare ai poveri. Una sorta di Robin Hood del Nuovo Mondo, un supereroe alle prese con la guerra alla povertà e alle ingiustizie. Ci vuole proprio la determinazione e l’azzardo dei supereroi per dire ciò che non va, per fare emergere il marcio che c’è nel nostro vivere e convivere. Per fare questo in scena – come nelle barzellette – ci sono un povero, un poliziotto, un muto e un cavallo in una sorta di terra di nessuno, incorniciati da lampadine di uno show che cita l’avanspettacolo fino ad arrivare alle trasmissioni televisive, Zelig e Colorado. Una cabina per le foto, luci perfette che colorano la scena nuda del Piccolo e la muovono, i quattro supereroi vestiti un po’ alla Elvis ultima maniera, irriverenti, eccessivi, si scambiano i ruoli, sono ora l’uno e ora l’altro, passandosi oggetti totemici: una lattina, una sella, un bastone e un megafono. Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini sono perfetti, bravissimi, danno il giusto ritmo al diluvio di parole, al cambiar di registro, ma ciò non basta a rendere efficace quello che vorrebbe essere un pugno nello stomaco, vorrebbe infastidire, ma si limita a dire, enunciare con un finale eccessivamente retorico. Ciò che la drammaturgia firmata da Latella e Federico Bellini porta in scena è un divertente j’accuse, un gioco verbale e semantico che nell’onomatopeico ronzare della Z, scandisce i diversi quadri dell’azione, un’azione che non ha svolgimento, ma dice, denuncia la nostra indifferenza nei confronti di una povertà, che non è solo materiale. La z di Zorro è anche quella di Zanni, il pitocco, il servo del teatro per eccellenza, ma anche la maschera che incarna la povertà, allegramente disperata. Il teatro è convenzione e come tale va preso, ma nel svelarne la convenzione, forse, si dimostra come dietro la finzione concordata ci sia più verità di quanto non si creda. Pian piano i quattro attori/poveri/Elvis attaccano, provocano, mostrano e di-mostrano la nostra indifferenza nei confronti di una povertà ignorata, che non è astratta, concreta, accanto a noi, geolocalizzata proprio in via Rovello. Si vorrebbe che il pubblico reagisse, si vorrebbe che la denuncia della nostra indifferenza verso chi ha meno e il pervasivo egoismo suscitasse una relazione, indignasse. Peccato che il pubblico del Piccolo Teatro condivida le posizioni espresse dai quattro supereroi, almeno a livello ideale, e quindi la provocazione cada nel nulla e scada in retorica. Agire e reagire è altra cosa. Zorro è l’esempio di un lavoro che nelle sue premesse teoriche funziona, tiene fede a tutto quello che il regista voleva dire, ma alla fine non sortisce effetto, finisce nella prossimità e nella determinatezza del dire per apparire ridondante e in questa sua ridondanza poco efficace. E perché questo? Forse perché il teatro è convenzione, la povertà pure, fino a quando non la s’incontra sotto i portici di via dell’indipendenza a Bologna. Nicola Arrigoni