Corriere Lombardo, 3 dicembre 1953
Dove si dimostra ancora una volta che anche a teatro, il linguaggio è tutto e, in ultima analisi, è la sola cosa che conta. Il ventaglio di Lady Windermere è del 1892 e pur tradotta – e piattamente tradotta – mantiene vivo il proprio interesse affidato alla precisione di un tono e all’uniformità, anzi all’unità di uno stile che definiscono di per sé stessi un atteggiamento mentale, vorrei dire quella puntualizzazione morale, implicitamente sempre connaturata all’arte, in senso positivo o negativo che sia, non conta; attraverso la quale i fatti e gli accidenti di una commedia cessano di appartenere alla cronaca per farsi, attraverso la deformazione del linguaggio, essi stessi poco o molto patrimonio della storia che esprime una civiltà.
E non è a dire che le vicende, i personaggi, i loro rapporti, senza contare l’architettura esteriore della commedia, non siano venerandi e non denuncino a prima vista quella specie di degradazione che il romanticismo subì acconciandosi e rattrappendosi alla misura del teatro borghese con implicita pretesa di documentazione e critica della società. Non erano nuovi nemmeno quando il provocante Oscar Wilde, fanciullo terribile in un’Inghilterra vittorianamente puritana, li prendeva come armature del suo aforismatico e corrosivo umorismo. Del resto, da Byron a Shaw, è destino e privilegio inglese esprimere dai cadetti della sua classe dirigente il fanciullo terribile di turno a correttivo del proprio quacchero conformismo.
Lo schema del copione è esattamente quello della commedia francese del tempo, creatasi e perfezionatasi attraverso Augier, Dumas e Sardou. E quanto alla vicenda – una madre colpevole e disonorata che eroicamente evita di farsi riconoscere dalla figlia, pur salvandola da un passo falso ed evitandole di commettere il suo stesso fallo – proprio la Odette di Sardou avrebbe delle legittime ragioni di gridare al plagio. Senza contare che, rovesciato il sesso, un padre invece di una madre, la situazione centrale – se si vuole, la scena madre – è la medesima perfino della Morte civile del nostro Giacometti tanto più remota, e conosciuta in quegli anni a Londra nella interpretazione di Tommaso Salvini.
Ma i fatti e i sentimenti sono quello che il linguaggio dell’autore li fa essere. Ed è curioso constatare come essi si carichino di interiorità, di discrezione e, ma sì!, di pudore, proprio in virtù di un’accanita e ostentata preoccupazione di insolente scetticismo che tenderebbe a farli risultare aridi e meccanici, nell’intenzione di sottometterli a esclusivo veicolo di una sorprendente, spiritosa e narcisistica conversazione fine a sé stessa.
Il lietissimo debutto all’Excelsior della Compagnia Calindri-Zoppelli-Volpi-Valeri-Riva, si è valso di una elegante, armonica e affiatata esecuzione curata da Ernesto Calindri alla quale i fantasiosi e ricchi costumi della Calderini e le eccellenti scene – eccettuata la prima – dello Zimelli hanno conferito un tono di riesumazione stilisticamente ineccepibile. Lia Zoppelli e Valeria Valeri, madre e figlia, una più affascinante dell’altra, hanno recitato con eguale intelligente finezza e diversissima morbidità di sentimento; il Calindri ha disegnato magistralmente, con quel suo gusto sottile ed ironico; una figura marginale; Franco Volpi è stato di una riservatissima misura, il Pierantoni di un controllato ardore; sicuri, disinvolti ed esatti l’arguto Giacobini, il Pandolfini, il Maestri, la Sorlisi, la Casartelli, la Bettelli e un’altra mezza dozzina di aristocratici del Regno Unito. Ah, mi dimenticavo quella cara donna e stupenda attrice di Isabella Riva che s’è fatta civettamente applaudire a scena aperta.
Carlo Terron