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Corriere Lombardo, 23 marzo 1950

Chi è stato a dire che un’idea vale più di una miniera di carbon fossile e una verità filosofica conta meglio di una guerra vinta? Sia chi sia, ieri sera, per confermarci questa verità filosofica è stato disturbato un giovane autore greco di duemilaquattrocento anni fa. Senza farci eccessive illusioni, ci sembra che la lettura delle dialogiche dispute filosofiche del divino Platone potrebbe essere una pratica altamente consigliata ai supremi Sicofanti contemporanei, teorici e idolatri dell’energia, dell’economia e del carro armato elevati sugli altari dalla allegra civiltà moderna (a proposito, mica male come stazioni di arrivo dopo un viaggio di ventitré secoli di idealismo e di venti secoli di cristianesimo). Decidiamo dunque così: al creatore della bomba atomica, tutte le sere prima di coricarsi, mezz’ora di lettura del Liside ovvero dell’amicizia, all’inventore del Piano Marshall idem del Gorgia ovvero della retorica, all’onorevole Togliatti idem del Carmide ovvero della temperanza, all’onorevole De Gasperi idem dell’Eutrifone ovvero della santità, al ministro Scelba idem del Critone ovvero del rispetto delle leggi, alla senatrice Merlin idem del Pitagora ovvero della possibilità di insegnare la virtù, e via di questo passo. Chi sa!

La recitazione di due dialoghi platonici, fatta ieri sera all’Excelsior da Ruggeri, sull’esempio di Zacconi e, se possibile, superandone i risultati, è stata una dimostrazione conturbante della potenza demoniaca della parola. Cristiani, cos’è la parola di Platone in bocca a Ruggeri! C’è in essa veramente, qualche cosa della magia che Pitagora attribuiva ai numeri.

Accostando in un unico spettacolo il Critone e il Fedone, appunto come già Zacconi, Ruggeri ha, in certo qual modo, composto l’estremo dramma di Socrate che dei due contemporanei è il protagonista. Tra le due opere, così idealmente simili e coerentemente logiche da costituire quasi le due giornate di un unico dramma – e tre se si volesse considerare l’Apologia come il loro prologo naturale – corrono molti anni della vita di Platone. Il primo è una composizione della giovinezza, forse degli stessi anni del Protagora e dell’Apologia; il secondo, sensibilmente più perfetto nella sottigliezza dialettica e, vorrei dire, nella delicatezza umana, nella fantasia intuitiva e nella paritetica malinconia delle sfumature concettuali, è un’opera della maturità e mi pare costituisca uno dei vertici del lirismo speculativo del filosofo.

Come sanno battaglioni di studenti liceali, il Critone, che analizza le azioni umane di fronte al dettato della legge, prende il titolo dal nome dell’amico affezionato di Socrate, il quale vuole indurre il maestro alla fuga dal carcere dopo l’ingiusta condanna. Sono di fronte la morale pratica del discepolo e la morale eroica del maestro. L’uomo giusto deve sottostare alle leggi anche quando esse sono male applicate. Si è uomini, si è cittadini, si è sposi e padri, in quanto si obbedisce alla legge. A nessuno è consentito infrangerla, per nessuna ragione. E la mistica conquista di questa alta verità, che avrebbe fatto molto piacere all’onorevole Scelba, si dipana e si chiarifica attraverso la maieutica disputa fra l’alunno e il maestro. Socrate accetta la condanna per non dover abdicare alla sua dignità di uomo e di cittadino.

Fedone è il più giovane degli scolari, il paternamente prediletto, il socraticamente amato. E all’adolescente del cuore, e agli altri smarriti che lo circondano nell’ora estrema, prima di bere la cicuta, il maestro dimostra la immortalità dell’anima, la sua incorruttibile ed eterna. Morire è, in realtà, vivere. E qui il discorso socratico s’incurva erigendosi ad altezze arcane per non so che grazia intuitiva della ragione la quale supera le obiezioni strettamente intellettuali e limitatamente logiche degli allievi, in una visione altissima della verità, che non è cristiana soltanto per ragioni cronologiche ma che meriterebbe di esserla più di molte visioni cosiddette cristiane di questa nostra poco cristiana età. C’è in questo dialogo, tutto percorso da un’impercettibile e affettuosa ironia, un dilatarsi progressivo, un lento e fermo ascendere gradualmente, per i cerchi sovrapposti e sempre più ampi di una spirale avviata dalle tenebre verso la luce, che, quando il filosofo tracanna la sua coppa di cicuta, ci rende persuasi non di una morte in agguato ma, veramente, dell’imminente resurrezione nelle regioni elisee della beatitudine data dalla conoscenza. Socrate, l’anima di Socrate, non è morta, anzi si inciela, ed è giusto sacrificare ad Esculapio il gallo di ringraziamento per la guarigione da una malattia, la malattia della vita della quale siamo affetti tutti quanti noi, e speriamo per un lungo tempo ancora, nonostante tutto.

La qualità spiccante del Socrate di Ruggeri è quella di una perfetta armonia fra la modellazione plastica e figurativa le semplicità e la discrezione umana e la trasfigurazione lirica del personaggio. Conoscendo lo stile dell’enorme attore, si poteva presumere che questa terza qualità avrebbe prevalso su tutte le altre; essa, invece, si libera e si libra dalla condizione di una umanità umile, pudica e raccolta, da una grandezza d’intelletto dimessa e schiva, da un’accettazione della morte che va oltre la rassegnazione per consistere in un fatto che non lo riguarda, contemplato dal di fuori.

Non è né il caso né l’opportunità di un confronto con Zacconi. Semmai, si può dire che mentre Zacconi scolpiva e dava corpo alla parola, quasi a farne percepire la sostanza sensibile conquistando, nel momento stesso di pronunciarla, la coscienza della sua verità, Ruggeri rende le trasparenze, le suggestioni e le armonie di un processo dialettico già tutto conquistato e risolto in precedenza, rifatto non per sé ma per la persuasione degli allievi, rivestendo il proprio distacco di sottile e cordiale ironia. Come ciò non bastasse, prima egli aveva recitato L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Dieci minuti di altissima recitazione di una purezza di diamante. Il Pucci, il Sabbatini, l’Ortolani e il Barbetti hanno partecipato alla rappresentazione.

Serata dalla temperatura altissima davanti a un teatro superbo, commosso e stupefatto. Renato Simoni ha cominciato ad applaudire fin dal primo calar di sipario. Alla fine, il pubblico ha fatto ressa sotto la ribalta, chiamando e acclamando Ruggeri una quindicina di volte.

Allegri amici, si prepara un roseo avvenire per il teatro italiano. Il pubblico comincia a fare per Ruggeri ciò che fa per Wanda Osiris.

Carlo Terron 

Ultima modifica il Lunedì, 15 Dicembre 2014 11:18
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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