Corriere Lombardo, 13 settembre 1953
Ieri sera inaugurazione della nuova stagione di prosa col debutto al teatro Odeon della Compagnia delle Tre Venezie, nel nome e sotto gli auspici dell’infelice Toulouse-Lautrec, divenuto l’uomo del giorno nelle conversazioni mondane soltanto perché aveva le gambe corte ed esse non gli impedivano di essere un assiduo cliente delle case chiuse. Il cittadino americano d’origine francese, Mr. Pierre La Mure, autore della commovente e applaudita storia, deve essere quel che si dice un uomo nato con la camicia. Ma ciò che lo rende ammirevole è la straordinaria abilità commerciale dimostrata nell’usarla. Onore al merito. C’è chi da un cappotto non riesce a ricavare nemmeno un gilè; lui invece con una semplice camiciola della fortuna è riuscito prima a cucire una grossa biografia romanzata tradotta già in sedici lingue civili; a permutarla poi in un film spettacolare presentato ai bagni del Lido; e infine, non contento, coi ritagli cadutigli dalle forbici, a rimediare una commedia in tre atti, e non so quanti quadri, intitolata anch’essa Moulin Rouge, che, per quanto ridotta alla metà, è ancora lunga, aggiungendovi la non richiesta generosità di riserbarcene la primizia accanitamente disputata da parecchi dei nostri capocomici e impresari, evidentemente persuasi di dare la caccia a un formidabile en plein artistico e commerciale per via della risonanza internazionale, del Made in Usa, della “prima mondiale assoluta” e via discorrendo. Oh, snobismo snobismo, quanti provincialismi si commettono in tuo nome!
A proposito di questa modesta commedia – intorno alla quale non essendo né migliore né peggiore di tante altre non era e non è il caso di far tanto baccano – non mi farete il torto, spero, di ritenermi obbligato ad informarvi sul conto, sull’aspetto, sull’origine aristocratica, sul temperamento neurastenico, sulle abitudini dissolute, sulla malattia delle ossa, sulla paraparesi spastica, sull’altezza da terra, sull’alcolismo cronico, sulla morte precoce, e sui quadri di Toulouse-Lautrec; sull’ambiente di Mont-Martre con la sua vita “gaia e terribile” per usare un termine dell’autore di Bohème, valido anche cinquant’anni dopo; e sulla rivoluzione della pittura francese fin de siècle. Se non altri, su queste cose vi ha già abbondantemente informato in vari modi, con la diligenza di un colonnello di amministrazione, il detto signor La Mure che di esse ha fatto la sua rendita perpetua. Tutti i personaggi che avete visto ieri sera risultano iscritti, nome e cognome, nei registri dello stato civile del Comune di Parigi, come tutte le fedeli truccature degli attori sono fotograficamente storiche. Peccato soltanto che a fare una bella commedia occorra qualche cos’altro.
Col suo svolgimento didascalico, frammentario e senza fretta, il copione mira a suggerire una specie di biografia interiore del pittore senza accompagnarlo fin sul letto di morte, presentandocelo come un povero essere umiliato ed offeso assetato di affetto, e limitandosi a raccontare il suo amore vergognoso e sciagurato per quella Marie Charlet, donnaccia del più basso rango, che lo tradisce, lo disonora, lo denigra e lo deruba avvilendolo fino a mescolarlo ai più spregevoli rifiuti della società, in un’abiezione che lo spinge a staccarsi dai pannelli e a dimenticare nell’alcol le sue pene. Fin che giunge il giorno del riscatto in un insorgere della dignità vilipesa. Egli la scaccia per sempre da sé e, come liberato da una malattia vergognosa, torna all’unica consolazione della sua esistenza: il lavoro. Egli s’è già svincolato da ogni rispetto accademico e da ogni conformismo tradizionalista e potrà realizzare quella pittura acre e denigratoria popolata da livide caricature di fantasmi d’uomini dalla sensualità di gesso o dalla frenesia macabra colti al di qua e al di là delle piccole e delle grandi ribalte che gli conferiranno la postuma gloria e, facendolo entrare nelle enciclopedie, permetteranno gli esercizi dei romanzieri e dei commediografi come Pierre La Mure.
Personalmente – e non solo io immagino – ritengo che il segreto motore di un’esistenza, a conti fatti poverissima d’avvenimenti esteriori di rilievo, sia stato quello di una disperazione sardonica superata in un’ironia assunta come norma di vita e liberata artisticamente in sarcasmo lirico. Da furbo calcolatore di forti effetti teatrali, l’autore invece la trasferisce – consapevole o no – in chiave di una solitudine sconsolata, effetto di una generica disperazione erotico-sentimentale priva di interiorità ed esposta, per così dire, a tutti i venti, senza difesa e senza autentica ribellione. E se ciò, per un verso, riesce a dar luogo qua e là a clamorosi effetti di crudezza realistica e di volgare evidenza documentaria accompagnati da una teatrale commozione a forti tinte, esclude, per un altro, il gioco più sottile e più interessante delle ombre e delle luci segrete della psicologia, senza nemmeno tentare di scalfire la superficie degli insospettati spessori umani intorno ai quali si lavorava. Del resto, pare che l’autore stesso abbia dichiarato di aver voluto fare un dramma popolare e niente più. È questione di gusti, ma dal suo punto di vista è innegabile che c’è riuscito.
Il successo della serata – una quindicina di chiamate e un lungo applauso di sortita alla prima attrice, leggermente calante alla fine – è dovuto prevalentemente alla ottima recitazione collettiva, notevolmente superiore al dialogo, e al vario e colorito spettacolo, assai più nobile e intelligente del copione. La compagnia, omogenea, fusa e senza alcuna deficienza della numerosa distribuzione, è stata guidata con rigorosa efficacia stilistica da Gianfranco De Bosio, ottimamente servito dalla scena e dai costumi di Mischa Scandella, tutti ispirati ai quadri del pittore; e da Rosita Lupi autrice delle non facili coreografie del nascente can-can.
Diana Torrieri ha galvanizzato il suo non simpatico personaggio con pittoresca energia e istintiva passionalità. Ma la responsabilità maggiore spettava a Giancarlo Sbragia, addirittura sorprendente non tanto per essere riuscito a ridurre, con l’aiuto di un misterioso marchingegno ortopedico, i suoi svettanti centottanta centimetri a un’altezza minore di quella dell’ultimo re che abbiamo avuto, quanto per la maturità, la penetrazione e l’autorità dimostrate nel cercare di dare un’anima al protagonista. Egualmente lodevoli: Giuseppe Caldani, intenso ed incisivo interprete della figura di Van Gogh al quale restano affidate le battute migliori della commedia, Ottorino Guerrini umano e sicuro, Anna Maestri semplice e vera, Anna Maria Alegiani interprete bella e sana quanto bella e sana ragazza; la limpida Migneco, la armoniosa Nova; il Dolci, la Patrioli, il Lepscky e tutti gli altri. Particolare rassicurante: Memo Benassi non ha gettato bombe in teatro.
Carlo Terron