Dal 14 al 20 settembre 2015 il Teatro Altrove di Genova ha ospitato la dodicesima sessione di "Crisi", laboratorio di drammaturgia condotto da Fausto Paravidino. Ci incontriamo al termine della penultima giornata di lavoro nel dehors di palazzo Fattinanti-Cambiaso, che al suo interno accoglie una sala polivalente da cento posti per spettacoli, concerti, proiezioni cinematografiche, dibattiti.
Lo interrogo sulla nascita di questo progetto laboratoriale che ha visto la luce nel luglio 2012, ma la cui gestazione risale all'anno precedente nella culla del Teatro Valle Occupato di Roma.
Come è iniziata l'avventura di "Crisi"?
"Era tempo di referendum sui beni comuni. Insieme all'acqua abbiamo pensato che anche la cultura dovesse rientrare tra questi beni. In base al principio della diffusione del potere ci piaceva l'idea di un teatro retto da un'assemblea che avesse come referente la comunità. A seguito dello smantellamento dell'ETI che gestiva il teatro, il vuoto istituzionale è stato colmato dai cittadini".
Perché sei entrato a far parte di questa assemblea?
"Perché sono un cittadino democratico e amo molto il Teatro Valle. Vivendo nel teatro mi chiedo come si potrebbe fare meglio. L'obiettivo è stato quello di costruire un teatro di drammaturgia che si occupasse del presente, un luogo dedicato, come ne esistono all'estero. Per realizzare questo abbiamo avvertito subito la necessità di lavorare sulla formazione. Allontanandoci dal trend generale dei laboratori a pagamento o meglio, a sfruttamento, (io li chiamo "tangenti sulla speranza") ci siamo domandati che tipo di formazione dovessimo offrire, arrivando alla conclusione di dover armonizzare due aspetti divergenti: la necessità di un clima raccolto e di approfondimento e la libertà di accesso alla formazione per chiunque. Un'altra istanza è stata quella di creare un ciclo ecologico per cui i testi prodotti in laboratorio fossero finalizzati alla messa in scena di spettacoli. Da queste visioni è nato il prototipo "Crisi"".
Quali sono le sue caratteristiche?
"È un laboratorio aperto al pubblico, formato da 20-30 persone. Ne fanno parte attori, autori e registi. Gli autori scrivono delle scene che vengono studiate dal gruppo e hanno la possibilità di confrontarsi tra loro. Questo è importante perché spesso tra scrittori non pubblicati non ci si conosce e non ci si può invidiare. L'invidia, come diceva Shakespeare, è il motore dell'universo. Invece qui si invidiano e migliorano. Gli attori, dal canto loro, lavorando per il cliente (l'autore), imparano a costruire una lingua semplice e a restituire il testo anziché un'idea di regia".
Come è cambiato "Crisi" dalla prima sessione ad oggi?
Innanzitutto è cambiato l'indirizzo: siamo stati cacciati (l'11 agosto 2014 il Teatro Valle è stato sgomberato dalle forze dell'ordine, n.d.a). Dopo l'esilio c'è stato un periodo di fermo, per leccarci le ferite e per miei impegni personali. A marzo 2015 abbiamo ripreso all'Angelo Mai di Roma e adesso a Genova con una nuova call. Il gruppo si sta allargando. Nel frattempo molti testi sono giunti a compimento. Le attuali circostanze ci obbligano ad andare più in giro. In precedenza eravamo già stati ospitati a Novi Ligure (AL) e a Torino, dove abbiamo trovato una bella accoglienza anche da parte del pubblico".
A proposito di pubblico. Gli uditori possono partecipare alla sessione del pomeriggio. Che gente arriva?
"Alcuni sono addetti ai lavori, altri vengono perché vogliono imparare a scrivere per il teatro, altri ancora sono semplicemente curiosi del lavoro che facciamo. Contrariamente alla vecchia guardia che snobbava i dibattiti, rievocando le sedute anni 70, abbiamo capito che il dibattito è uno strumento importante. Prima con "Genova 01" (testo di Paravidino sul G8 di Genova in cui veniva proposto un dibattito a fine spettacolo n. d. a.) e poi con "Crisi" abbiamo scoperto che molta gente è desiderosa di dire la sua, che ha voglia di partecipare. Cerchiamo di fare in modo che il lavoro a porte aperte resti uguale a quando siamo tra di noi. Inevitabilmente l'approccio diventa più performativo, ma cerchiamo di non compiacere il pubblico restando concentrati sul lavoro."
"Crisi" nasce all'insegna della gratuità.
"Nasce da un sogno rivoluzionario del Valle. Lo facciamo per attivismo. È un mito quello della formazione retribuita. Almeno in Italia. In Francia, ad esempio, esiste uno Statuto degli intermittenti dello spettacolo, cioè dei lavoratori culturali che non hanno, per natura del loro mestiere, una continuità lavorativa. Gli attori che pagano i contributi quando non lavorano ricevono un vero e proprio sussidio di disoccupazione e viene pagata loro la formazione. I'idea è "quando non lavorano li facciamo studiare". È vero che la Francia è un paese più ricco, ma non è la Danimarca con pochi abitanti e stabilimenti petroliferi sparsi in tutto il mondo. È una socialdemocrazia come la nostra, solo che investe in cultura il 2% del Pil anziché lo 0,17% come succede da noi. Dati da verificare." (Gli ultimi dati ufficiali di Eurostat si riferiscono al 2013 e riportano che l'Italia spende lo 0,7 % contro l'1,5% della Francia, n.d.a.).
Prima di "Crisi" hai avuto altre esperienze nel ruolo di guida di laboratori di scrittura?
"Da circa dieci anni mi capita di insegnare, ma in maniera episodica e con un meccanismo frontale. "Crisi" invece è permanente e organico e funziona in senso inverso: si parte dai lavori."
Quanto hai imparato da "Crisi"?
"Moltissimo. Il macello di Giobbe (ultimo testo scritto da Paravidino che ha già debuttato all'estero e che andrà in scena al Teatro della Tosse di Genova a gennaio 2016, n.d.a.) è nato dentro "Crisi". Abbiamo aperto il processo di scrittura di questo testo studiando insieme Shakespeare, economia e la Bibbia."
Qual è stata la differenza nella realizzazione de Il macello di Giobbe rispetto agli altri tuoi testi precedenti?
"Direi una diversa contaminazione linguistica e un più forte confronto con il teatro popolare anziché con il teatro borghese. Abbiamo provato a rivolgerci ad un pubblico vasto come fa il cinema, che parla al servo e al re. Di solito il teatro seleziona il pubblico in base alle regole del mercato, nello stesso modo in cui la Ferrero seleziona i suoi consumatori".
Quali regole vanno seguite invece?
"Bisogna porre all'autore tre domande: che cosa vuoi fare? Di cosa hai bisogno? Che teatro ti piace? Di solito quest'ultima è la più difficile da rispondere. Abbiamo un problema di gusto. Dobbiamo concentrarci sul nostro prima di centrare quello del pubblico. Nel contesto di "Crisi" siamo privi di target e deadline e possiamo connetterci con il nostro desiderio più intimo di teatro. Se hai bisogno di soldi non ti possiamo aiutare, ma abbiamo a disposizione il tempo e le risorse umane."
Ti capita di suggerire la lettura di alcuni testi teorici sulla drammaturgia?
"Questo è un tasto delicato. Non dolente, ma delicato. Rispetto alle scienze esatte in cui i conti tornano a seguito di una giusta misurazione, quando si tratta delle discipline umanistiche si rischia di entrare in una notte in cui tutte le vacche sono nere. Ogni scrittore ha ragione di scrivere come scrive, così come ogni attore ha ragione di recitare come recita. Poi però vediamo che qualcosa è indiscutibilmente brutta o indiscutibilmente bella, nonostante un enorme margine di errore. Siamo stufi del già visto, anche se funziona e, nello stesso tempo, abbiamo paura delle novità. Non ci sono regole inviolabili ma un mainstream del gusto che ha portato ad un'ipotesi di regole. Mi è piaciuto, non mi è piaciuto, perché. Studiamo i bravi, consapevoli che non siamo nell'anno zero. Adesso stiamo studiando As you like it di Shakespeare e Phaedra's love di Sarah Kane. Caso per caso ci accorgiamo magari che una commedia assomiglia ad un'altra e andiamo ad approfondire. I testi teorici entrano in gioco molto raramente. Studiamo il teatro con altro teatro. In ogni caso veniamo da una cultura monoteista, per cui ci accontentiamo di studiare Shakespeare".
In occasione dell'ultima giornata di lavoro ho partecipato come uditrice alla sessione del pomeriggio e alla serata di chiusura. Assistendo alle scene scritte dagli autori mi sono resa conto di ciò che intende Fausto quando dice: "il teatro si fa da solo, senza lo strappo del regista". L'unica ricerca è quella che riguarda i desideri e i bisogni dei personaggi e lo sviluppo dell'arco narrativo della storia a cui appartengono. Nessun ragionamento si perde in filosofie, ma resta saldamente agganciato alla concretezza di ciò che accade, foglio alla mano, battuta per battuta.
Ogni autore ha la possibilità di cogliere feedback da molteplici direzioni: dagli attori che hanno prestano il loro corpo e la loro voce ai suoi personaggi; dagli altri membri del gruppo che hanno assistito alla scena, magari per la seconda o terza volta; dagli uditori che hanno partecipato come primi spettatori. Fausto coordina questo ventaglio di osservazioni, suggerimenti e domande e mette l'autore di fronte alle scelte inderogabili, e a volte sofferte, che deve compiere per andare avanti. Fino alla prossima Crisi.