Principio Attivo Teatro nasce nel 2007 e da allora porta i propri lavori in tutta Italia e all'estero. Quest'anno con Opera Nazionale Combattenti presenta I Giganti della Montagna atto III la compagnia è stata selezionata per la finale di In-Box Dal Vivo aggiudicandosi il secondo posto nella sezione Blu. Il 2 giugno hanno partecipato con lo stesso spettacolo a Primavera dei Teatri, mentre l'1 dicembre saranno al Teatro Sociale di Bergamo. Noi abbiamo avuto modo di dialogare con l'attore e regista Giuseppe Semeraro.
Come è riuscito a tradurre un'opera così tradizionale come I giganti della montagna di Pirandello in linguaggio contemporaneo?
«Il testo che mettiamo in scena non è quello di Pirandello, ma lo abbiamo elaborato noi scrivendo il nostro finale de I giganti della montagna. Con la compagnia ha collaborato Valentina Diana, una drammaturga che ha seguito tutto il processo creativo fin dall'inizio. Eravamo partiti attorno a degli argomenti legati al teatro, al mondo dell'arte, alla bellezza, poi siamo finiti a I giganti della montagna. L'opera di Pirandello, però, non la trovavamo più necessaria oggi e quindi, nel momento di massima crisi, abbiamo capito che dovevamo fare uno spettacolo sull'ultimo atto che non è mai stato scritto. Da lì abbiamo iniziato a lavorare sul testo: abbiamo pensato a una Compagnia che non è Principio Attivo Teatro ma una sorta di eteronimo, una compagnia fuori dal tempo, una specie di "Pirandello social club" che decide di scrivere e mettere in scena proprio quell'atto inesistente. Se non avessi avuto la collaborazione di Valentina come drammaturga - che è stata anche attrice quindi la materia del teatro la conosce profondamente, di cui mi fido e con cui dialogo costantemente - penso che sarebbe stato molto più difficile.»
Attraverso questo lavoro metateatrale sembra che lei voglia raccontare il mestiere dell'attore oggi, è corretto?
«Più che dell'attore, il ruolo del teatro e anche della necessità dell'arte: per chi la si fa, chi è il pubblico oggi, che ruolo ha il pubblico di cui si parla tanto? Può sembrare apparentemente uno spettacolo vecchio, in realtà è molto contemporaneo. Al centro delle nostre domande mettiamo la relazione tra gli attori e gli spettatori, con l'obiettivo di creare un nuovo patto di fratellanza con il pubblico, che viene messo di fronte allo specchio di quello stesso pubblico immaginario che sta dall'altra parte. La Compagnia della Contessa lascia la villa per andare a trovare il pubblico e noi, in qualità di Opera Nazionale Combattenti, sequestriamo il pubblico, occupiamo il teatro, mettiamo il filo spinato e gli imponiamo la visione dello spettacolo.»
Qual è stata nel tempo la risposta del pubblico pugliese e come siete stati accolti all'estero?
«All'estero questo spettacolo lo abbiamo fatto solo una volta, ma abbiamo in mente di rifarlo anche in lingua. Siamo stati in Macedonia, nel Teatro Stabile, dove quel tipo di polemica che sottintende lo spettacolo non arriva moltissimo, non se ne sente la necessità. Ho la sensazione che sia uno spettacolo molto italiano, non come limite, ma come necessità di dire cose che stanno accadendo a noi. Rispetto al sud e al nord Italia è uno spettacolo che, come tipo di ironia, piace più al nord: al sud piacciono le cose passionali e invece questo è uno spettacolo che fa riflettere, ti fa entrare in un immaginario.»
Cosa dell'esperienza con Danio Manfredini e Pippo Delbono ha portato nei suoi lavori?
«Con Pippo ho fatto delle sostituzioni, non ho partecipato al lavoro di creazione degli spettacoli, sono stato catapultato in un giorno e mezzo in due spettacoli diversi, dove dovevo imparare dei testi in maniera molto veloce. Il teatro di Pippo è una delle realtà più importanti che c'è in Italia. Quella con Danio, invece, è stata un'esperienza totalizzante di 14 anni di lavoro; l'anno prossimo riprenderemo anche Cinema Cielo. Devo ammettere che è stato importante anche che in Vocazione non ci sia stato, perché mi ha permesso di mettere a fuoco delle cose che voglio raccontare io.»