Il Macbeth di Shakespeare secondo Ariane Mnouchkine con i suoi 45 attori del Theâtre du Soleil (situato nella Cartoucherie di Vincennes, all'interno del bosco omonimo, un tempo polveriera e deposito di armi e poi a partire dagli anni '60 diventato una fabbrica di Teatro e di Danza perché all'interno oltre alla Mnouchkine vi operano il Teatro dell'Aquarium, L'Atelier de Paris-CarolynCarlson, il Teatro della Tempête) certamente non esaltante come altri suoi spettacoli precedenti, è appena terminato dopo quasi 4 ore con intervallo e i 500 spettatori, molti dai canuti capelli, certamente della generazione che ha vissuto il '68, escono ordinatamente senza tanto bruit, rumore dalla grande sala. Mi avevano detto che non avrei potuto intervistare la Mnouchkine perché elle era troppo fâscée, arrabbiata forse perché non riusciva a pagare per intero gli stipendi alla sua numerosa troupe di attori, ricevendo tuttavia le stesse sovvenzioni statali degli anni precedenti e che mi sarei dovuto accontentare di incontrare tale Duccio Bellugi Vannuccini, un attore d'origine italiana, che avevo visto prima sulla scena nel doppio ruolo di maitre d'hotel e quello più impegnativo di Malcom, figlio del re Duncan. Aspetto con un'amica e collega nella grande hall piena di tavoli rotondi, lo stesso luogo che diventa pure prima dell'inizio dello spettacolo una grande sala da cena per moltissimi spettatori che sembrano contenti di sorbire brodose zuppe di funghi e verdureaccompagnate da fette di pane e beveraggi vari. Dopo un po' arriva un biondino piccoletto e dai suoi accenti italiani capisco che è la persona che aspetto. Ci sediamo attorno ad un tavolo, lui ordina qualcosa da mangiare, io bevo un bicchiere di vino rosso che mi offre e che bevo lentamente mentre parliamo.
Parlami un po' di te, dove e quando sei nato e com'è che ti trovi a lavorare con la Mnouchkine?
« Sono nato a Firenze il 28 dicembre del 1962, mia madre è una giornalista di Repubblica e mio padre, deceduto due anni fa, era direttore d'orchestra impegnato in varie città come Vienna e Palermo».
Quando cominci a fare teatro?
« Dopo gli studi scolastici mi sono trasferito a Parigi, studiando l'arte della recitazione e in particolare del mimo con i più grandi maestri di questa disciplina che sono Jacque Le Coque, Marcel Marceau e Etienne Decroux. Ho anche perfezionato il mio modo di stare in scena frequentando in Germania il Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch che poi ho interrotto per entrare a far parte del Teâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine ».
Da quanti anni lavori con la Mnouchkine?
« Da 27 anni, dal 1987, prendendo parte a tutti i suoi spettacoli dall'Indiade, Il Tartufo, Tamburssur la digue, Les ephemeres, sino a quest'ultimo Macbeth ».
In questo Macbeth tu vesti il personaggio di Malcom che diventerà poi re di Scozia con l'aiuto di MacDuff (Sebastien Brottet-Michel) dopo che il padre Duncan (Maurice Durozier) viene ucciso da Macbeth. E' un ruolo importante e tu lo interpreti con grande slancio e partecipazione. Chi è Malcom per te?
« Malcom dopo l'uccisione del padre torna in patria da eroe dopo aver combatturo coraggiosamente con i suoi soldati. Quello che lui incarna è la speranza, la speranza d'un re migliore e come dice alla fine "sarà difficile ma tutto ciò sarà fatto con misura a tempo e luogo, perciò grazie a tutti quanti ead ognuno ».
Devo dirti invero che, questa volta, la messinscena di Ariane, che ha curato pure la traduzione del testo di Shakespeare, non mi ha convinto. Certo è sempre uno spettacolo di alta fattura, con i cambi di scena memorabili e con i numerosi attori che si muovono ben amalgamati quasi come su un set cinematografico. Ma resto perplesso sull'opportunità di ambientarla ai tempi nostri con costumi contemporanei che stridono a volte con le battute del testo e poi sul perchéAriane abbia spostato l'interesse della tragedia sul personaggio di Macbeth (Serge Nicolaï),che ho trovato in vari punti ridicolo, e non su Lady Macbeth (Nirupama Nityanandan) chè è il vero motore di tutti gli ammazzamenti per giungere al potere. Tu che ne pensi?
« Siamo già alla 150ª rappresentazione e arriveremo nel prossimo mese di marzo a superare le 180 repliche. Ciò vuol dire che quando è nato questo spettacolo c'era ancora Nicolas Sarkozy presidente della repubblica francese ed è a questo personaggio che s'è ispirata Ariane, per farne un Macbeth-Sarko avido, furbo che fa paura e terrorizza chi gli sta vicino ».
Hai rapporti con strutture teatrale in Italia?
« Qualche anno fa ho collaborato con il Teatro Comunità insieme all'Associazione Culturale Choros di Torino, la cui responsabile è Maria Grazia Agricola, alla realizzazione de Le Troiane di Euripide, ma non è detto che non torni per altri avvenimenti ».
Il regista Pippo Delbono è già alla lavorazione del suo nuovo spettacolo "Orchidee" che debutterà a maggio, ma intanto prosegue la sua tournèe italiana con "Dopo la battaglia". Lo contatto a Vignola nei pressi di Modena per fargli un'intervista che desidero da tanto. Il suo spettacolo, a cui ho assistito al teatro Stabile di Genova il marzo scorso, mi ha colpito per il massiccio inserimento della danza all'interno di un argomento all'apparenza estraneo e allora chiedo al regista:
- La danza ha un ruolo predominante e determinante in "Dopo la battaglia", le chiedo perché?
La danza è predominante perché nella "cella" che descrivo è come ci fossero degli uccelli che cercano di fuggire. La ballerina è un elemento liberatorio. Le parole non servono sempre, anzi, la danza è come un volo, un impulso di libertà, che va appunto al di là del ver-bo. La danza rappresenta un bisogno di uscire fuori at-traverso il corpo, il volo dell'anima. Ecco perché in questo spettacolo mi sono assolutamente affidato alla dimensione coreografica.
- Perché la scelta dell'etoile dell'Opera di Paris Marie-Agnès Gillot?
Prima di tutto perché siamo amici. Lei veniva sempre a vedere i miei spettacoli e da questo è nata una stima reciproca e una conoscenza più profonda. Infatti la con la Gillot ho fatto il mio ultimo film "Amore- carne" che uscirà nelle sale italiane il prossimo 6 giugno. Il senso di questa scelta nasce dalla voglia di tornare al classico, di andare all'origine del rapporto vero col corpo che nessuno meglio di un ballerino ha. Il corpo come guaritore ed elemento essenziale di comunicazione. Del resto in oriente il teatro nasce proprio dal corpo, e chi sa usare bene il proprio corpo ha una verità che mostra una forza diversa sulla scena. Guardiamo Bobò ad esempio, è straordinario, il suo essere è costantemente danzato, anche adesso che ha 76 anni sembra ringiovanire giorno per giorno grazie alla danza che ha innata dentro di sé.
- Da cosa è nata la scena della ballerina alla sbarra con Bobò nelle vesti del Maestro Cecchetti?
Da un'improvvisazione di Bobò e Marie Agnes. Mi è piaciuta e l'ho tenuta. Inizia con un fuori scena in cui la ballerina mi dice:" Cos'è questa cosa che non si fa più il balletto? Ma l'hai detto a questi signori che c'è l'etoile dell'Opera di Parigi?" La mia risposta fa uscire la danzatrice dalle quinte, un invito ad entrare in palco che esorta comunque la ballerina a scaldarsi alla sbarra e da qui la scena con Bobò "maestro".
- Com'è stato il lavoro con la Gillot? Avete collaborato in armonia?
Assolutamente sì. Io le ho fornito delle immagini a cui far riferimento, l'idea di una sequenza che voleva significare l'uscire da una gabbia. Lei ha capito perfettamente, c'è stato un grande affiatamento e una coincidenza poetica.
- Qual è invece il ruolo dell'altra ballerina, totalmente diversa, Marigia Maggipinto?
Il mio incontro con Marigia risale a tanti anni fa, quando Pina Bausch la teneva con sé in casa. Marigia rappresenta Pina, la sua danza è quella di Pina. Il suo corpo rotondo così diverso da quello di Pina è però totalmente nella poetica di Pina. L'ho incrociata recentemente a Bari e così l'ho invitata a prendere parte allo spettacolo. Il suo è proprio un omaggio alla coreografa scomparsa.
- Due ballerine così diverse per raccontare la stessa cosa o altro?
In un certo senso sì, anche se in modo diverso. Due ballerine par raccontare il volo come impulso di libertà, bisogno di uscire fuori attraverso il corpo. In Agnes c'è più inquietudine, in Marigia c'è la calma doverosa ad un omaggio verso qualcuno che non c'è più. In Agnes si riscontra una danza di lotta e rabbia, in Marigia si legge la pace dopo la morte.
- Un'ultima domanda più generale: qual è secondo lei lo stato di salute del Teatro in Italia in questi tempi?
Il teatro italiano di oggi ha tante energie e tante po-tenzialità, ma vi sono realtà che non emergono. Spesso teatranti cadono nella trappola di voler sorprendere rifacendosi ad una vecchia estetica. E' vero che l'arte è rivoluzione, ma non è sempre quella là. Oggi purtroppo c'è la mancanza di "maestri". Il maestro è necessario all'artista per crescere, perché deve trasmettere una necessità primaria: la sincerità con sé stessi. Oggi si continua a voler fare rivoluzione, ma si è perso il punto di vista della cultura come punto di partenza. La cultura come fatto primordiale. La sincerità è il primo passo. E ci vuole un maestro per insegnare questo. Essere allievi serve, come essere ancorato al passato insegna all'umiltà. Bisogna imparare per rinnovare, altrimenti non si va da nessuna parte. Ed è quello che sta succedendo adesso.