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Martedì, 22 Marzo 2016
Pubblicato in Interviste

Lunedì 18 aprile andrà in scena in prima assoluta a Cesena l'ultimo spettacolo del Teatro Valdoca, Porpora. Rito sonoro per cielo e terra, concerto per pianoforte e voce recitante che vedrà sul Palcoscenico del Teatro Bonci Mariangela Gualtieri insieme al pianista e compositore Stefano Battaglia. Quanto al titolo/tema la Gualtieri scrive «Porpora è per me il colore dei doni, il colore della festa e delle vesti magnifiche, il colore degli antichi solenni riti. E questo ci piacerebbe che fosse: un dono, un tempo in cui vivere un volo, un rito di conciliazione dell'umano con la terra e col cielo. Un rito sonoro spalancato dunque sul mondo, sulle facce del mondo, con i loro tormenti e splendori, ma senza paura di sondare una più lunga gittata, fino al cielo, fino a dove spazio e tempo si accucciano e ci lasciano per un istante intuire ciò a cui poesia, musica e silenzio, in fine, conducono.» Un dono è ciò che ci ha fatto la drammaturga cesenate rilasciandoci un'intervista in occasione del debutto di questo inedito allestimento. Laureata in Architettura, Mariangela Gualtieri ha fondato, insieme al regista Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca nel 1983. Fin dall'inizio si dedica alla scrittura in versi e alla trasmissione orale delle sue poesie attraverso l'uso del microfono, suo principale strumento di lavoro. L'idea è di rompere la concezione tradizionale degli schemi metrici e di addentrarsi alla scoperta della parola partendo dal respiro e indagandone il ritmo interiore.

Come è avvenuto l'incontro quasi provvidenziale con la musica di Stefano Battaglia?
«Ero stata invitata a Bose per una collaborazione. Finito il lavoro sono rimasta un po' con gli amici della Comunità e la domenica successiva Stefano Battaglia teneva il suo concerto nella chiesa del monastero. Così l'ho conosciuto ed ho incontrato la sua musica. Un musicista davvero particolare, con una capacità di penetrazione del verso che non avevo mai trovato in altri compositori o strumentisti. Stefano legge i versi che di volta in volta gli propongo come se leggesse uno spartito; ne riconosce subito il timbro, la musicalità, la ritmica intrinseca. Ed è sorprendente come non si stanchi e come sia gioioso il suo rapporto con la musica e con la parola.»

Quali altri incontri nel corso della sua vita sono stati fonte di scoperta e ricerca artistica, oltre che umana naturalmente?
«La lista sarebbe davvero lunghissima, a partire dal mio sodalizio artistico e amoroso con Cesare Ronconi – certo l'incontro con lui è stato decisivo - a quello con gli attori e le attrici della compagnia, con molti dei quali sono ancora in un rapporto fecondo. Non oso farne i nomi, sia per la lunghezza della lista che ne verrebbe, e sia per la paura di lasciarne fuori qualcuno: a tutti loro devo una enorme gratitudine. Sono stati quasi sempre incontri amorosi, appassionati, nei quali sia l'arte che la persona che la incarnava, erano davvero fonte di scoperta e di ricerca artistica.»

Lei scrive che questo sodalizio nasce dall'urgenza di portare a compimento un progetto che da tempo era in cammino. Pensa che l'arte dovrebbe sempre essere spinta da questa urgenza intrinseca?
«Non so immaginare un'arte che non nasca da una urgenza insopprimibile. In realtà non si tratta però di un progetto che si compie: io sentivo che, malgrado l'incontro con tanti musicisti, non avevo ancora trovato una musica ed un compositore che potessero dialogare coi miei versi, non tanto con la scena che Cesare dirige, ma proprio con la musicalità dei miei versi. E dunque era questo un incontro che mi auguravo da tempo e per il quale ero forse in cammino.»

Questo nuovo spettacolo segna un cambiamento nella sua vita artistica e personale?
«Credo che ogni spettacolo da un lato sintetizzi e racconti i cambiamenti che avvengono continuamente in chiunque sia vivo, in chiunque sia aperto e in ascolto, e dall'altro sia l'attraversamento di una terra nuova. Ogni spettacolo segna una nuova pericolosa avventura e da questa si esce sempre modificati, sia quando le cose vanno bene ma ancor più nel caso contrario.»

Come si evince dal titolo, quello che presenterete sarà un concerto, un rito sonoro. La parola, attraverso l'uso del microfono, diventa il suo strumento musicale, si tramuta in suono ma senza perdere il proprio profondo significato. Pensa le sue poesie già in prospettiva della messa in scena?
«No, non domino la mia scrittura. Ho un atteggiamento di attesa, di ascolto. Prendo quello che viene, a volte una parola alla volta, a volte un flusso. Certo, trenta anni di pratica teatrale, cioè di vita della parola nell'oralità, penso mi abbiano fornito di un orecchio particolarmente attento. Anche se il termine messa in scena non è appropriato al nostro lavoro perché il testo nasce dentro la scena, durante le prove, dunque non viene messo in scena ma nasce dal movimento di forze che si muovono sulla scena, viene paradossalmente generato dalla scena.»

Per questo spettacolo ha scritto appositamente i testi oppure sono tratti da alcune sue raccolte?
«C'è una parte scritta appositamente, un poema che canta i colori nella loro potenza acustica, ed è la parte più fortemente teatrale. C'è un altro momento in cui si assemblano testi che avevo già scritto. L'idea della parte che dà il nome al rito sonoro, cioè Porpora, è nata da una conversazione fatta con Stefano, la seconda volta che ci siamo visti, l'idea cioè di cantare i colori. Ma io volevo stare lontana dalla simbologia dei colori - un terreno troppo percorso – e volevo invece mettermi in ascolto di ogni sfumatura, cogliere il paesaggio sonoro che ogni colore evoca, ed è ciò che ho fatto.»

Da dove nasce la sua scelta (quasi una battaglia oserei dire) di definirsi poeta e non al femminile poetessa?
«Mi piace pensare che la parola poeta sia nell'ordine di 'asceta', di 'atleta', di 'musicista', parole ambivalenti per entrambi i generi e così belle vicino a 'poeta'. L'arte pesca da una profondità nella quale i generi sono un dettaglio, pesca lì dove si è molto simili, in un comune fare anima che sta prima del nome e del genere.»

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