Festival Periferico IX edizione
Alto, fragile, urgente
Villaggio Artigiano, Modena Ovest
26, 27, 28 maggio 2017
progetto di Amigdala
ideato e diretto da
Federica Rocchi, Gabriele Dalla Barba, Meike Clarelli, Sara Garagnani
Visitato i gg. 27 e 28 maggio
Frecce nello spazio-tempo
Il festival Periferico di Modena
Amigdala è un gruppo interdisciplinare formato da artisti competenti in diversi settori: danza, teatro, musica, arti visive. Da nove anni realizza il festival Periferico in quel di Modena, quest'anno intitolato "Alto, fragile, urgente".
Ora noi sappiamo come l'Italia sia fatta anche e forse soprattutto di periferie e di provincia. Stare nel centro a volte produce solo un'illusione di presenza e di pienezza che spesso si poggia sulla tradizione ereditata, mentre in periferia o in provincia capita di vivere nella nostalgia di quella presenza e pienezza, cercando in tutti i modi di adeguarsi ai canoni importati: in entrambi i casi si tratta di qualcosa che sfugge ai dati di realtà riscontrabili nel faticoso, a volte penoso, esercizio dell'esserci qui ed ora e della critica. Stare nel centro fisico di una città non significa necessariamente porsi al centro delle dinamiche sociali e storiche in atto. A essere decisiva è la forza con la quale immaginiamo fisicamente scale diverse di rapporti, con cui innerviamo di valori gli scambi quotidiani, con la quale recuperiamo l'invisibile spremendolo dal visibile.
Ebbene, se ciò che si vede arrivando nell'ex Villaggio Artigiano di Modena Ovest, dove ha luogo il festival, di primo acchito non appare particolarmente interessante, ci colpisce tuttavia la sollecitudine e la cura con cui la troupe ha allestito spazi e accoglienza.
Ciò che si vede sono strade lunghe e diritte fiancheggiate da capannoni che ospitano, o piuttosto hanno ospitato, piccole e medie aziende. Pochissimo verde. Asfalto. Cemento. Nessun esercizio commerciale. Era la zona dove ha preso piede nei primi anni '50 del secolo scorso una piccola rivoluzione produttiva promossa dalla progettualità visionaria dell'allora sindaco e della giunta di Modena, che immaginarono un quartiere dove potessero crearsi le condizioni perché i numerosi disoccupati, operai metalmeccanici ad alta specializzazione, potessero avviare la propria attività.
Come riporta il sito dedicato: Nel volgere di sei anni in quel terreno incolto tra la ferrovia e la via Emilia trovarono posto e cominciarono a produrre 74 nuove aziende; i titolari, i nuovi imprenditori, erano soprattutto quegli operai licenziati dalla grande impresa, persone portatrici di una specifica professionalità e con una grande voglia di riscatto.
La modalità produttiva che vi si insedia è quella antica della casa-bottega: sotto le officine, e sopra gli appartamenti delle famiglie artigiane.
Inoltrandoci però in questo reticolo di strade vuote inondate dal sole percepiremo, fra poche ore, in uno di primi eventi della giornata, al seguito di una gentile signora da sempre lì residente che ci farà da guida raccontandoci il Villaggio Artigiano quasi casa per casa, che tutta questa storia è entrata da non poco tempo nel dominio dell'invisibile. In questo senso l'arrivo alla sede del festival, ospitato in uno dei vecchi capannoni-casa che costellano il quartiere, è quanto meno straniante. Eppure, man mano che ci orientiamo tra gli appuntamenti in programma, seguendo poi passo passo la densa articolazione di eventi a designare i quali non appare mai la parola "spettacolo", sostituita piuttosto da "conversazione", "visita guidata", "mappatura partecipata", "installazione", "camminata", cominciamo a comprendere che l'accadere cui siamo immessi ci sta rendendo testimoni di una graduale emersione dell'invisibile dal visibile. Di una storia umana corale da un coro muto di muri.
Camminate abbiamo detto: ne faremo almeno altre due, come la prima, con guida, e varie altre per raggiungere i luoghi di spettacolo dislocati nel Villaggio; ma anche quando ci imbattiamo in modalità non itineranti com'è il caso della conversazione di domenica mattina con Beppe Manni, negli anni '70 parroco del quartiere, prete operaio, animatore di una chiesa ricavata da un capannone, che poi si sposa e abbandona la tonaca, l'incontro è con figure che sono in grado di squadernare alla mente dell'ascoltatore non tanto una descrizione di cose o di successi economico-sociali, quanto un ritratto di uomini e donne, e di una comunità, vivo e vibrante.
Ma questo festival è tutto un invito a muoversi nel quartiere, in un gioco di scoperta che usa l'incontro con alcuni abitanti, e insieme l'arte, la performance, l'installazione, per trasformare ciò che appare inerte in una cassa armonica che accolga e amplifichi le voci di chi vive sul confine tra una storia a suo tempo gloriosa e un presente di abbandono. La domanda chiave di quello che si potrebbe definire come un esperimento di articolazione artistica del "dare voce" è tratta dal pieghevole del festival: "possono gli artisti operare delle trasformazioni in luoghi che sembrano cementificati nel loro presente?".
Nel percepire il calore e la passione con cui le persone porgono la storia del loro quartiere viene fatto di pensare che le trasformazioni dei luoghi possono avvenire solo se prima sono le persone a trasformarsi. Non si tratta di fare della retorica passatista, o della psicanalisi di gruppo, ma forse semplicemente di provare a riattivare vecchi sistemi circolatori, flussi di energia cui le persone possano ri-attingere. E qui il potenziale da riattivare è stimolato non solo e non tanto dalla presenza di una buona storia da raccontare, quanto dal racconto della propria storia, dal racconto di successi e amarezze appartenuti a un'intera comunità, con tutte le contraddizioni legate a quel momento storico (dagli anni '50 fino a tutti i '70) e alla sua ormai superata ideologia dello sviluppo.
Possono l'arte, il teatro, sollecitare questo genere di trasformazione negli esseri umani, e conseguentemente nei luoghi? Una trasformazione interiore prima ancora che esteriore. C'è un'intera tradizione novecentesca che risponde di sì, e l'eco di quella tradizione non si è ancora spenta, anzi accende sempre nuovi focolai nei più diversi contesti.
Una volta sperimentate conversazioni, camminate e incontri, ecco che gli appuntamenti più canonicamente performativi assumono un altro sapore. Certo, i linguaggi contemporanei non sono di immediata fruibilità, ma neanche il paesaggio sub-urbano in cui ci troviamo immersi lo è; ed è vero che quanto accade in giro per il Villaggio si fa fatica a metterlo in relazione coerente con gli eventi più concettuali: vedi la visita al particolarissimo "Tric e trac", tappa finale di una geo-esplorazione tra strada e campagna, che ci porta alla piattaforma ecologica dentro alla quale ci appare improvvisamente una sorta di piccola trattoria self-made o la sosta nello studio dello straordinario architetto-designer-artista Cesare Leonardi, che meriterebbe un capitolo a parte. Tuttavia il nesso esiste, ed è evidente; si tratta di un nesso innanzitutto ambientale: gli "spettacoli" infatti sono ospitati nei vecchi capannoni delle imprese, ora abbandonati, che i proprietari hanno accettato di mettere a disposizione del festival.
Non solo. Alcune installazioni, come quella realizzata dal collettivo Amigdala stesso, prendono spunto proprio da un intenso lavoro condotto insieme agli abitanti sul tema del sogno, restituendo il racconto dei sogni di un gruppo di essi nell'installazione ospitata all'interno del capannone di una vecchia officina. Appare dunque chiaro che il lavoro di interconnessione tra i vari accadimenti rimane appannaggio del visitatore-spettatore, il quale conta sul vantaggio di poter interagire a vari livelli con quello che vede. Se infatti le performance si prestano a una forma di fruizione frontale più tradizionale, gli incontri e le camminate sono qualcosa di più di una visita guidata, perché contengono un aspetto di testimonianza personale da parte delle guide che favorisce un'immediata adesione empatica del visitatore, e un'interazione spontanea.
Il tema del sogno, dicevamo, eccolo in qualche modo tornare nei "Racconti americani" di Muta Imago, per voce registrata e proiezione: un Bartleby letto pianamente come si fosse "davanti al fuoco in una sera di inverno"; e torna in "JA", installazione narrativa tutta dispositivi meccanici e video e colonna sonora elettronica di Office for a human theatre, dedicato alla storia della chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti. E di giorno, alla cruda luce del pomeriggio già estivo, è la nuda struttura interna di un capannone dismesso a chiedere e dare senso a "40.000 cmq" di Claudia Catarzi, in un assolo di danza ritagliato su una piccola pedana quadrata sulla quale la danzatrice sembra tessere una complessa strategia di fuga, di accettazione e di repulsione, lavorando il tavolato bianco come fosse di volta in volta prigione o zattera, luogo che ispira una fluidità di creatura aerea quando Catarzi lavora con ai piedi morbide calze accarezzando così, quasi pattinando, il pavimento, o una marzialità più angolosa accompagnata dal suono secco dei tacchi sul legno quando sono le scarpe da uomo indossate dalla performer a condizionarne i movimenti.
"Se posso portare in una galleria d'arte un pezzo nudo e crudo di vita, di mondo, perché non posso viceversa portare la galleria d'arte nel mondo, nello specifico in strada?". A questa domanda implicita sembra rispondere con levità e ironia l'installazione "Streetwalker" di Ljud: che consiste nel leggere la casualità degli oggetti incontrati per strada in chiave di ready-made. Il visitatore viene guidato da un percorso tracciato sull'asfalto con un nastro adesivo rosso che si diverte a zigzagare, a disegnare improbabili traiettorie sulla strada per poi finire immancabilmente a disegnare una freccia che indica un elemento in cui l'autore si è imbattuto: per esempio un segnale stradale, un intonaco scrostato, una cabina elettrica in disuso, una serie di portelloni verdi di garage, davanti ai quali un' esauriente scheda dall'aria molto compita avvisa il visitatore di trovarsi davanti all'opera, e la intitola e ne fornisce una sinossi: l'effetto è gustoso, a tratti esilarante, come ad esempio l'opera dell'artista "Fido", scodellata ai piedi di un albero, che, secondo la scheda, riprende l'eredità di un Manzoni con le sue celebri scatole contenenti deiezioni d'artista; o il delicato "Cielo fatto a pezzi" visto sulla parete azzurra scrostata di un edificio: è l'attenzione a creare l'opera, la focalizzazione del visitatore che seleziona dalla grande quantità di stimoli visivi presenti, complice la cura del percorso, il dettaglio rivelatore; intervento che diventa discorso sull'arte, meta-arte dall'ironia irresistibile, performance urbana indiretta, la quale prevede anche l'interattività (poiché alla fine del percorso al visitatore viene chiesto di farsi anch'esso curatore, di creare il suo proprio ready-made, fotografandolo con una Polaroid, e di catalogarlo), opera, esperienza di non casualità del consistere e dell'accadere.