Festival Primavera dei Teatri a Castrovillari 18ª Edizione dal 30 maggio al 4 giugno 2017
L'immagine della 18ª edizione del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari è una foto della spagnola di Barcelona Paula Rodriguez Feito che ritrae su uno sfondo azzurro un uomo nudo accovacciato su un piano bianco che si stringe la testa con entrambe le mani sulle orecchie, mentre s'intravedono scendere dall'alto (al ralenti?) un paio di gambe sin sopra le ginocchia, per le quali non è facile capire se trattasi d'un maschio o d'una femmina. Un'immagine ambigua, non univoca, che può starci benissimo con ciò che oggi è il mondo della cultura e del Teatro. Come può essere Pedigree di Valeria Raimondi e Enrico Castellani, quest'ultimo monologante per cinquanta minuti sulla scena, prima seduto su una poltrona a forma d'una moto-pop, con tanto di gemme rosse e borse portaoggetti laterali e poi in piedi nei panni d'un uomo con due madri, Marta e Perla, nato da un padre che ha donato solo lo sperma e con cinque fratelli sparsi per il mondo. Lo spettacolo andato in scena nella Sala Consiliare del Comune di Castrovillari per conto della Compagnia Babilonia dei Teatri, insiste sulle difficoltà delle nuove generazioni quando si trovano ad avere genitori biologici o di fatto e sui problemi d'identità e di coscienza che possono derivarne. Castellani invece che citare Dio nomina Zeus sull'origine dei sessi e va avanti con verbosità sino ai nostri giorni tra un paio di bianchi abiti femminili, posti poi sottovuoto in due buste di plastica, al ritmo d'un paio di canzoni di Elvis Presley e una "Mamma" cantata da Villa o Consolini, infilzando quattro polli fatti cuocere allo spiedo, mangiandone verso la fine pure una coscia, indossando ad un tratto una pancia posticcia, forse per desiderio di maternità, riflettendo ad alta voce sui diritti-doveri d'una generazione in provetta, che nel voler ricercare le proprie origini, rischia di cadere in un baratro di paure e d'incertezze, senza poter piantare nuove radici.-
Con Franco Stone - una storia vera nel rinato Teatro Vittoria dopo 31 anni di buio, vede protagonisti "I Sacchi di sabbia" di Pisa guidati dal loro leader Guido Bartoli cui si devono i costumi assieme a Giulia Gallo. Lo spettacolo scava nelle vere origini del Dottor Frankenstein, famoso scienziato che vuole fare rivivere i morti con l'applicazione del galvanismo e si rifà ad una leggenda che circolava già alla fine del '700 al tempo in cui viveva nella cittadina toscana un tale Dottor Franco Stone o Franco Pietra come veniva chiamato comunemente, prima che nel 1816 Mary Shelley scrivesse uno dei primi romanzi horror della letteratura mondiale. Lo spettacolo attinge a vari generi del Teatro leggero compreso l'avanspettacolo e il musical in stile fantasy-gotico e si avvale della voce fuoricampo di Dario De Luca (uno dei fondatori del Festival assieme a Settimio Pisano e Saverio La Ruina) che vivacizza il racconto intervistando i vari personaggi che si muovono sulla scena: Franco Bottai, Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Illiano, Tommaso Novi, Rosa Maria Rizzi, Giulia Solano.
È arrabbiato l'ivoriano Abraham Kouadio Narcisse nel ruolo di Aiace, ispirato nella drammaturgia di Matteo Luoni e Linda Dalisi (quest'ultima pure regista) al dramma di Sofocle, perché morto Achille, le sue armi, per volere dei due re Atridi Agamennone e Menelao, sono state affidate ad Odisseo e non a lui che era suo amico e molto simile al Pelide per forza e valori combattivi. Uno sgarbo che lo farà andare fuori di testa, commettendo corbellerie una dopo l'altra, compresa l'uccisione di bestie e armenti, al punto di sentirsi un clown buono solo a togliersi la vita. Lo spettacolo, prodotto dalla Stabilemobile di Antonio Latella, si fa apprezzare per l'ottima prova di Annibale Pavone, un Odisseo in vestito bianco, (i costumi sono di Graziella Pepe) pure pacifista quando dirà che "la guerra fa schifo, è una latrina pubblica e i soldati sono delle merde che galleggiano..." e per le buone presenze sceniche, non sempre comprensibili ahimè! della francese Estelle Franco in tailleur pure bianco nel ruolo di Atena e dello stesso Narcisse che ruzzolava parole in taliano, francese e in vari dialetti africani: tutti e tre ad un tratto colti a danzare un hully gully con le musiche di Marco Messina. Sulla scena di Giuseppe Stellato al Teatro Sybaris, solo tre lavagne luminose per proiettarvi Odisseo disegni e dimensioni varie del Cavallo di Troia su tre velatini posti in fondo alla scena, buoni pure per nascondere in filigrana i personaggi del dramma, con Aiace diventato intanto un mitologico centauro.
Scena interamente verde per Tropicana, una creazione collettiva, curata e drammatizzata da Francesco Alberici, pure interprete assieme a Claudia Marsicano, Daniele Turconi, e Salvatore Aronica per conto della Frigoproduzioni. Il titolo dell'opera fa riferimento ad una bevanda tipo aranciata e ad un brano ballerin-canoro al ritmo di calipso del "Gruppo Italiano". Una canzone che racconta d'un day after, durante il quale i quattro protagonisti si sentono come dentro un film ad osservare attoniti, con gli occhi all'insù, qualcosa che il pubblico non vede ma che loro vivono, somigliando a quei personaggi di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, mentre in televisione passa la pubblicità della bibita. Per un fatto curioso che ha il sapore dell'ossimoro, la canzone in vetta alle hit parade dell'estate del 1983, passando come un inno alla leggerezza delle vacanze estive, racconta in realtà temi angoscianti, passati tout court inosservati, forse perché nessuno l'ha ascoltata attentamente. I quattro interpreti si rendonosimpatici agli spettatori del Teatro Sybaris, mostrandosi tuttavia troppo slegati tra loro, con momenti di vuoti scenici, riuscendo alla fine a bere quel liquido arancione delle bottigliette.
Eccoci adesso nuovamente al Teatro Vittoria per uno spettacolo dalle tre "P": niente a che vedere con le tre "P" di Pasolini, ma qui di seguito Personale Politico, Penthotal - Opera rap per Andrea Pazienza acuto fumettista quest'ultimo nativo di San Benedetto del Tronto scomparso nel 1988. Uno spettacolo da sballo, artefice un'anfetaminica Marta Dalla Via, in tailleur dai colori azzurrognoli, che arriva in scena con un canestro di papaveri rossi in testa e che per quasi 80 minuti al microfono si esprime in un linguaggio labirintico ricco di neologismi che sarebbe molto piaciuto ad Alessandro Bergonzoni. Di lato alla scena ci sono due DJ, uno alle prese con Radio Alice, l'altro a rinverdire con quel "volante uno a volante due" antichi fasti radiofonici renzoarboriani. C'è pure un telefono d'antan con lampadina che s'accende quando squilla e un ampio divano al centro spesso avvolto da fumi fastidiosi che arrivano in platea. Alla base del plot c'è una storia d'amore tra il rapper Francesco e la protagonista di prima che emette mille parole al minuto, mollata solo con un "ciao scema", mentre il padre del ragazzo telefona più volte per sapere dov'è e cosa fa. Spettacolo ricco d'interventi rap, forse troppi, al punto da far dileguare lentamente verso la fine il numeroso pubblico che ha applaudito oltre alla Dalla Via pure Omar Faedo (Moova), Simone Meneguzzo (DJ MS), Michele Seclì (Lethal V), Roberto di Fresco (Giobba).
S'intitola Masculu e fiammina (nessun refuso per questo secondo termine che sta per "femmina") l'ultimo spettacolo di Saverio La Ruina che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano nel dicembre scorso. Un monologo di 60 minuti intensi, inscenato nella Sala Consiliare del Comune cittadino, in cui il protagonista in abito di velluto nero con una rosa rossa in mano va a trovare la madre al cimitero, raffigurata in una foto accanto alla lapide imbiancata di neve (scene di Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo). Il figlio le parla in un dialetto calabrese del luogo, comprensibile quasi a tutti, come se avesse la madre lì accanto a lui. Le racconta della vicina di casa, tale Nina, bionda dai capelli corti, nota teatrista dalla vita incredibile e poi con un filo di pudore comincia a confessarle ciò che, forse, la madre sapeva già e che non gli ha mai rivelato, ovvero che al figlio piacevano i maschi, senza mai pronunciare la parola "ricchione", che avrebbe potuto offenderlo e che nella sua testa poteva raffigurarsi come l'unione dei due sessi, maschio e femmina appunto. E una volta uscita dalla bocca questa parola è come se La Ruina avesse aperto uno scrigno ricco di segreti. Che cominciano a venire fuori da quando all'età di 10 anni lavorava in un bar, o quando al mare guardava i corpi nudi degli uomini attraverso il buco della serrature delle cabine e gli piaceva poi osservarli quando indossavano i pantaloni corti. All'inizio fu Carlo durante un cenone di fine anno, poi vennero altri amori vissuti senza sguaiataggine, in sordina, di nascosto, con sensi di colpi quasi per il modo come gli altri, vedevano "malato" il rapporto omosessuale. La Ruina è superlativo nel ruolo, quasi angelicato per come racconta i rapporti con Angelo, di nome e di fatto, e con Alfredo che morirà ancora giovane andando a mettere sulla sua tomba un biglietto su cui ci stava scritto " svegliatemi in un mondo più gentile" e lo spettacolo si conclude con le note di Fortissimo cantata da Mina. Le musiche originali erano di Gianfranco De Franco, il disegno luci di Dario De Luca e Riccardo De Leo.
È quasi una parodia de Il gabbiano di Cechov lo spettacolo ideato e messo in scena da Stefano Cordella al Teatro Vittoria per conto della milanese Compagnia Oyes titolato Io non sono un gabbiano. Un modo, si direbbe, per prendere le distanze da quel capolavoro di drammaturgia spostandolo ai giorni nostri, almeno per come sono agghindati i protagonisti, e forzarne attrazioni, sentimenti e amori. S'inizia con un funerale decantato con paroloni da una specie di cerimoniere (in realtà è il maestro Medvedenko che alla fine impalmerà la giovane Masha) che parla d'una cara estinta, quella d'una grande attrice, verosimilmente di Irina che fu amante del letterato Trigorin, invero mai morta nel dramma. Tra di loro s'aggira il razionale medico Dorn che parla della vita in modo inclemente e razionale e spicca tra il truce e il depresso la presenza del giovane Kostjia, aspirante drammaturgo, figlio della presunta defunta, che ad un tratto si denuderà davanti a Nina la donna che lui ama senza essere riamato - si ha la sensazione che Nina potrebbe essere la madre Irina amata dal figlio d'un amore incestuoso- cui Trigorin le farà la festa portandogliela via. E non solo. Perché le farà fare pure un figlio e poi l'abbandonerà ad un destino miserevole che si concretizzerà lavorando come attrice in teatri di terz'ordine. Intanto Kostjia consapevole dei suoi insuccessi amorosi e teatrali, si leverà di torno con un colpo di pistola, ma qui non tanto perché riapparirà pure da morto. Abbiamo solo notizie dei nomi dei protagonisti senza sapere i loro ruoli. Eccoli di seguito: Camilla Pistorello, Camilla Violante Scheller, Francesco Maola, Umberto Terruso, Dario Merlini, Dario Sansalone, Fabio Zulli, Daniele Crasti.
Edi come Edipo di Marina Occhionero di cui sentiremo parlare a lungo nel prossimo futuro come una delle attrici più promettenti del panorama teatrale italiano e Giò come Giocasta di Vanessa Korn, sono rispettivamente la figlia e la madre de La cerimonia di Oscar De Summa, pure regista e interprete nel ruolo dello zio, che si rifà al mito di Edipo proposto in chiave femminile. Se si vuole c'è pure Laio (Marco Manfredi) padre di Edi e marito di Giò: un quartetto che agisce fuori e attorno ad un rettangolare tavolo nella scena color miele di Lorenzo Banci che firma pure i costumi al Teatro Sybaris. Dal lavoro si evidenzia quanto labili e problematici siano i rapporti padre-madre-figlio, quando da bambini si comincia a diventare adulti e i disagi sono dietro l'angolo, tramutandosi a volte in atti di violenza, di incomprensione e di disaffezione verso amici e parenti, oppure rinunciando alla siluette del proprio corpo diventando anoressici o bulinemici o ancora peggio entrando nel vortice delle droghe. Edi pur andando bene a scuola vorrebbe non andarci più, forse per noia, forse perché trova inutile avere passione verso il sapere e la cultura. Una ragazza diventata indifferente verso il mondo che la circonda, sembrando una nuvoletta che fluttua un po' fra cielo e terra, incapace di ribellarsi ad una madre nevrotica, pure lei con i suoi guai a causa del marito che la trascura, sembrando più interessato a vivere una relazione omosessuale che lo ha investito come un tram preso di faccia, mostrandosi un bambino incapace di gestire affetti familiari e relazioni sentimentali. Soltanto lo zio sembra aver capito come vanno le cose, cercando di aiutare con giochi vari la nipote. Pure con dialoghi assennati perché si ribelli all'apatia e alla noia e cominci a vivere finalmente. Una forza, però, che la ragazza troverà da sola fuggendo alla fine da quel nucleo familiare.
Li avevo visti debuttare con successo nel 2010 con Il nostro amore schifo e l'anno successivo con Biografia della peste e l'ultima volta risale a quattro anni fa con Le cose, Angeli e no. Loro sono (adesso) la 32enne Luciana Maniaci di Brolo (ME) e il 34enne Francesco D'Amore di Bari. I due hanno coniugato i loro cognomi formando il "Maniaci D'Amore Teatro" e presentano qui al Teatro Vittoria il loro più recente spettacolo titolato La crepanza - Ovvero: come danzare sotto il diluvio. Un titolo criptico che vede al centro della scena un dipinto di Keith Haring popolato da tanti omini che danzano, mentre lei, Amara di nome, per via del costume sembra una farfalla, quasi una piccola Trilli nell'isola che non c'è, mentre lui, di nome Mio come il formaggino, per via della giacca cangiante di verde sembra un mago Houdini del XXI secolo. Si trovano nel deserto del Nevada durante un raduno da sballo e tra danze frenetiche e ragionamenti da Piccolo Principe, abbracciano un materassino rosso dalle forme d'una aragosta e lo spettacolo assume connotati da opera pop. Ad un tratto scende dall'alto una sorta di culla e in loro nasce un desiderio genitoriale d'un bambino che non vedremo mai, tingendosi l'opera di aure beckettiane e di riflessioni dostoevskiane riguardanti i grandi temi che affliggono l'uomo, come la solitudine, la fede, la morte, chiedendosi(ci) se l'amore sarà in grado di salvare l'umanità intera. L'eccellente regia era di Andrea Tomaselli, i costumi di Pasquale Pellegrini, le luci di Daniele Coffaro.
Lingua di Cane di Sabrina Petix, prodotto da L'Arpa Compagnia Residente e dal Teatro Garibaldi di Enna, chiude al Teatro Sybaris la 18ª edizione del Festival Primavera dei Teatri. Lo spettacolo è entusiasmante non tanto per il tema che riguarda i migranti, quanto per l'interpretazione dei sei interpreti (Franz Cantalupo, Sara D'Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia, Rocco Rizzo) che la minuziosa regia di Giuseppe Cutino ha esaltato nei loro movimenti da teatro-danza che ricordava la grande Pina Bausch. Sulla scena nuda col palcoscenico ricco di indumenti, i protagonisti parlano ognuno per proprio conto come se ciò che dicono riguardi se stessi e non altri. Una pioggia improvvisa esalta i colori cangianti dei lenzuolini plastificati metà argento metà oro, diventando un mare mosso quando, opportunamente illuminatio, vengono fatti cadere sotto il proscenio. Si spogliano, si rivestono sul palco che diventa quasi un grande barcone, gettando poi in aria, con un bell'effetto visivo, gli indumenti che hanno accanto a loro. I morti li chiamano dispersi. La vita dura poco e la morte dura sempre. Vanno via alla fine facendo dei fagotti degli abiti rimasti, e sul fondo della scena appare una grande vela tappezzata di stracci che ha la forma triangolare della Sicilia. Scene e costumi erano di Daniela Cernigliaro, i movimenti di scena di Mariagrazia Finocchiaro, il disegno luci di Marcello D'Agostino.